Il sistema della riscossione italiano è da record. In negativo: le classifiche mostrano che è tra i peggiori al mondo. Non è un caso se è l’unico riuscito ad accumulare un magazzino in gran parte inesigibile pari al 60% del pil. Le cause sono di vecchia data: limitazione dei poteri dell’agenzia incaricata di esigere i pagamenti, assenza di verifiche preventive sulla solvibilità dei debitori, regole sulla cancellazione dei carichi mai aggiornate rispetto a quando il compito era affidato a concessionari privati, personale insufficiente. E scarsa volontà politica di intervenire in modo incisivo. La riforma messa in campo dal governo Meloni nell’ambito della delega fiscale cambierà molto poco. Perché il decreto esaminato lunedì in consiglio dei ministri è monco: si limita a prevedere il discarico automatico dei debiti non riscossi entro 5 anni dall’affidamento all’Agenzia della riscossione e rateizzazioni extra large anche per chi non può dimostrare di non essere in grado di pagare.
Le performance del sistema che dovrebbe imporre ai contribuenti di saldare il dovuto sono disarmanti. Le cifre recuperate, rispetto ai carichi affidati da Agenzia delle Entrate, enti locali e previdenziali, casse e ordini, sono inchiodate a una percentuale poco sopra il 13%: 170 miliardi su oltre 1.200, tra il 2000 e il 2022. Solo la Grecia, stando ai dati Ocse aggiornati al 2021, ha un maggior rapporto tra imposte non riscosse e gettito fiscale annuale: quello dell’Italia è superiore al 200%. E nessun altro Paese ha una quota così bassa di crediti fiscali riscuotibili sul totale di quelli arretrati: 5% contro l’85% del Regno Unito, l’83% di Germania e Spagna, il 43% e il 5,6% del Kenya (vedi grafico sotto). Di qui l’accumulo di una mole di 269 milioni di singoli crediti che sono in gran parte carta straccia, tanto che sono iscritti nel bilancio statale applicando svalutazioni superiori al 96%.
Come uscirne? “Le analisi comparative dell’Ocse mostrano che le best practice internazionali si fondano su tre pilastri: bisogna prevenire la formazione del debito fiscale, usare in modo efficiente i poteri coercitivi dell’agente della riscossione e gestire il magazzino prevedendo anche regole di cancellazione dei debiti inesigibili”, spiega Alessandro Santoro, presidente della commissione che prepara la Relazione sull’economia non osservata e l’evasione. Il decreto legislativo approvato in prima lettura lunedì “si occupa solo dell’ultimo tassello. Ma per rendere dignitoso un sistema di riscossione nelle condizioni di quello italiano bisogna agire su strumenti, poteri e personale“.
Partiamo dagli strumenti: è ancora l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in un corposo manuale sulla “Gestione proficua del debito fiscale”, a prescrivere che l’amministrazione dovrebbe per prima cosa massimizzare il gettito raccolto nei termini – quindi prima di arrivare alla fase coercitiva – perché più a lungo un debito rimane in sospeso più è difficile vedere i soldi. Per farlo vanno identificati i canali più efficaci per l’invio dei solleciti, come fa per esempio il Belgio usando quattro diversi modelli predittivi. I migliori risultati si ottengono distinguendo i contribuenti in base alla categoria di rischio e utilizzando l’analisi dei dati per individuare la tecnica migliore per convincere ogni debitore. In Gran Bretagna una piattaforma di analisi permette di selezionare i contribuenti che potrebbero con alta probabilità finire insolventi e trattare le loro posizioni con priorità. Gli Usa hanno di recente potenziato il ricorso a modelli che consentono di personalizzare l’approccio e massimizzare gettito e quota di casi risolti. Questi modelli presuppongono lo sfruttamento massivo tecniche di data mining, il cui utilizzo è previsto nell’ultima convenzione tra Entrate e ministero delle Finanze e confermato tra i principî della delega, ma ancora soggetto a limiti legati al rispetto della privacy. E su cui il nuovo decreto non aggiunge nulla. Un altro ostacolo è rappresentato dalla separazione tra Agenzia delle Entrate e Riscossione, che ovviamente condividono le informazioni ma devono scambiarsele secondo procedure farraginose. La delega si propone di fonderle, ma i decreti attuativi varati finora non sono intervenuti sul punto.
Per velocizzare il recupero occorre poi rafforzare la batteria di strumenti a disposizione dell’agente della riscossione, che oggi è soggetto a importanti limiti per quanto riguarda la pignorabilità di stipendi e pensioni, non può colpire i beni necessari per l’esercizio della professione, non può espropriare la prima casa e nemmeno gli altri immobili di proprietà a meno che il credito non superi i 120mila euro. Misure che tutelano i contribuenti fragili ma sono una manna per gli evasori incalliti. Lo scorso anno, non senza polemiche interne alla maggioranza e marce indietro solo di facciata, il governo ha inserito in manovra una norma che consente all’erario di ottenere dalle banche informazioni sulla capienza dei conti correnti dei debitori in modo di procedere al pignoramento a colpo sicuro e non “al buio”. Ma il decreto attuativo del Mef non è ancora stato emanato.
Sarà comunque solo un primo passo, perché al momento l’iter del recupero coattivo è così lento che gli evasori hanno gioco facile a intestare conti e beni a prestanome o famigliari per risultare nullatenenti. Anche per questo l’Agenzia, in una relazione del 2021, aveva chiesto di poter accedere alla banca dati delle fatture elettroniche per individuare e subito pignorare le somme che il debitore attende dai clienti. Quella richiesta è rimasta inascoltata. Troppo in contrasto, forse, con il concetto di “fisco amico” caro a Giorgia Meloni, convinta che lo Stato non debba “disturbare chi crea ricchezza”.
Infine, il personale. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, che sul fisco amico ha un’idea molto diversa da quella della premier, ha ricordato l’anno scorso che la pianta organica dell’ente è di circa 44mila unità e nonostante il piano straordinario autorizzato dalla legge di Bilancio nel 2025 si arriverà solo a quota 37mila, al netto dei pensionamenti. Non proprio un investimento imponente. Peraltro, la quota di dipendenti impiegati specificamente nel recupero dei crediti fiscali si ferma oggi a meno del 5% contro una media Ocse superiore al 10%.