Negli annali delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, erano quasi 70 anni che non succedeva che gli stessi candidati dei due maggiori partiti si affrontassero per due volte consecutive. Ed era quasi un secolo e mezzo che non accadeva che uno dei grandi partiti presentasse per tre volte di fila lo stesso candidato alla Casa Bianca. Ma, ormai, anche quelli che non ci potevano credere, anche quelli che non volevano che accadesse, si devono rassegnare: salvo colpi di scena imprevedibili, Usa 2024 sarà un remake di Usa 2020. Il presidente Joe Biden, democratico, e l’ex presidente Donald Trump, repubblicano, si affronteranno in un duello rivincita il 5 novembre.
E’ la prima volta che accade dal 1956: Dwight Eisenhower, il generale dello sbarco in Normandia, eletto presidente per i repubblicani nel 1952, battendo il candidato democratico Adlai Stevenson, s’impose per la seconda volta sul suo rivale, un intellettuale che ispirò l’espressione ‘testa d’uovo’ divenuta poi virale. Ed è la seconda volta soltanto che un candidato di uno dei maggiori partiti si presenta per tre volte di fila avendo perso un’elezione: il democratico Grover Cleveland vinse nel 1884, perse nel 1888 contro Benjamin Harrison e si prese la rivincita nel 1892: un po’ quello che potrebbe avvenire quest’anno, a partiti invertiti.
Altre Americhe, quelle del secondo dopoguerra e del dopo Guerra Civile: meno divise, meno diverse, meno polarizzate. Nell’analisi dell’Ap, il fatto che i giochi siano fatti, quando le primarie non sono neppure a metà strada – si voterà fino a giugno – segna “un momento di cristallizzazione per una nazione a disagio con le sue scelte per Usa 2024: la prospettiva della rivincita approfondirà, quasi certamente, gli spartiacque politici e culturali nei prossimi otto mesi”.
In comune con questa, le Americhe 1956 e 1892 avevano la difficoltà del ricambio generazionale, ora evidentissima.Già nel 2020, Biden e Trump, 152 anni in due, erano la coppia di rivali più anziani mai affrontatisi nella storia dell’Unione; e chiunque avesse vinto sarebbe stato il presidente più anziano ad entrare alla Casa Bianca – il record battuto era di Ronald Reagan, eletto a quasi 74 anni la seconda volta -. Quest’anno, i due insieme fanno 160 anni. E, dietro di loro, non emergono ricambi.
Senza dovere attendere il mini Super Martedì del 19 marzo, Biden e Trump, vincendo le primarie del 12 in Georgia, in Mississippi, nello Stato di Washington, alle Hawaii, e ancora alle Marianne e fra i democratici all’estero, hanno superato la soglia di delegati necessaria per l’aritmetica sicurezza della nomination alle convention dei rispettivi partiti: i repubblicani a luglio, i democratici in agosto rispettivamente a Milwaukee e a Chicago.
Naturalmente, margini di incertezza restano: l’età per Biden, i processi per Trump, l’ineluttabilità degli eventi per entrambi. Ma, a poco meno di otto mesi dall’Election Day, il 5 novembre, è ormai finita la fase della campagna per le primarie e comincia quella per le presidenziali.
D’ora in poi, è probabile che i toni di Biden, ma soprattutto quelli di Trump, un po’ cambieranno: l’obiettivo non sarà più consolidare la propria base, ma cercare di andare a conquistare moderati e indipendenti. Trump incalza Biden per un confronto in tv faccia a faccia, prima dei tre canonici già fissati tra settembre e ottobre. “Per il bene di questo Paese e per informare gli americani su quanto sta accadendo, deve esserci immediatamente un dibattito fra il corrotto Joe e l’onesto Don. Io sono pronto in ogni momento e ovunque”, scrive il magnate su Truth.
Ora i due sono i ‘presumptive nominees’ dei rispettivi partiti. Ma i risultati fin qui raccolti hanno anche qualche risvolto negativo. In Georgia, Trump è oltre l’80%, ma la sua ex rivale Nikki Haley, che pure s’è ritirata dalla corsa, supera il 15%, con oltre 60 mila voti: un segnale di allarme, secondo alcuni analisti, perché vuol dire che tra i repubblicani c’è uno zoccolo duro anti-Trump, che potrebbe risultare decisivo negli Stati in bilico come proprio la Georgia. Discorso analogo si può fare per Biden nel Michigan e ovunque c’è il fenomeno degli ‘uncommitted’, con punte del 20%.
Il percorso resta fitto di incognite. Sul cammino di Biden, gli ostacoli maggiori sono l’età avanzata e la scarsa popolarità. Rispetto al rivale, il presidente pare più fragile, anche perché nessuno si aspetta da Trump, che parla per slogan, coerenza e precisione, mentre tutti le pretendono da Biden. La scarsa popolarità del presidente in carica deriva dal fatto che gli elettori non gli riconoscono quanto fatto in economia, con crescita elevata e disoccupazione bassa: l’inflazione post-pandemia e post-guerra in Ucraina ha eroso il potere d’acquisto e aumentato il costo del denaro; e, per quanto si sia ridotta, gli effetti restano. E, poi, c’è il chiodo dell’immigrazione, su cui la destra batte.
Sul cammino di Trump, invece, gli ostacoli sono soprattutto giudiziari. Il magnate deve affrontare quattro processi penali e 88 capi d’accusa – erano 91, poi un giudice in Georgia gliene ha abbonati tre -. Due federali: a Washington per la sommossa del 6 gennaio 2021, quando migliaia di facinorosi da lui sobillati invasero il Congresso, riunito in sessione plenaria, per indurlo a rovesciare l’esito delle elezioni; e in Florida, per avere sottratto centinaia di documenti riservati dalla Casa Bianca ed esserseli portati nella sua dimora in Florida, negando di averli e rifiutandosi poi di restituirli. Uno statale in Georgia, per avere fatto pressioni sulle autorità locali perché alterassero a suo favore l’esito del voto 2020. Infine, uno a New York, per avere comprato in nero, con i soldi degli elettori, durante la campagna del 2016, il silenzio sulle storie con una porno-star e con una coniglietta di Playboy.
Col concorso di giudici di fiducia dell’ex presidente, i legali di Trump operano manovre dilatorie: vogliono ritardare il più possibile l’avvio dei processi e, soprattutto, evitare che vadano a sentenza prima del voto. Quello di New York dovrebbe aprirsi in 25 marzo, ma potrebbe slittare. Gli altri sono bloccati da cavilli e da un ricorso alla Corte Suprema – sei giudici su nove conservatori, tre scelti proprio dal magnate -: Trump chiede l’immunità per tutto quel che fece da presidente.
Nelle primarie fin qui svoltesi, i due rivali hanno mostrato la loro forza e anche le loro vulnerabilità elettorali. L’uno e l’altro sono esposti a dissensi interni ai loro schieramenti: Biden fa meno presa che nel 2020 su giovani, minoranze, sinistra; Trump non convince i conservatori moderati e stenta fra gli indipendenti. L’ipotesi che Biden si faccia da parte è ormai remota, salvo fatti traumatici. La sua carta vincente potrebbe essere il carattere divisorio della candidatura Trump, che – sottolineano i democratici – “vuole distruggere la democrazia, strapparci libertà fondamentali e fare tagli fiscali per miliardi di dollari per i ricchi”.
Nella campagna elettorale, c’è pure spazio per la politica estera. Le guerre in atto sono un handicap per Biden, che insiste sul sostegno all’Ucraina, cui i repubblicani però negano gli aiuti, e che critica senza effetto Israele per le stragi di civili a Gaza. Trump dice che con lui le guerre non ci sarebbero mai state: quella in Ucraina finirà il giorno dopo che sarà presidente, mentre l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha il suo piano avallo.
A Mosca, Vladimir Putin, che sta per avere l’ennesimo mandato presidenziale, e a Gerusalemme Benjamin Netanyahu lo aspettano come una manna. L’Europa ne teme il ritorno: al Trump 2, che nega l’aiuto agli alleati ‘morosi’, la Nato potrebbe non sopravvivere. Invece di piangerci addosso, troviamoci lo stimolo per fare l’Unione della Difesa.