Cinque sbarchi, con un totale di 275 migranti, a partire dalla mezzanotte a Lampedusa dove ieri, invece, nell’arco di 24 ore con 11 carrette salpate da Zuwara in Libia e Sfax in Tunisia, sono giunte complessivamente 546 persone. Così sono attualmente 674 i migranti ospiti dell’hotspot di Lampedusa da dove, con i due traghetti di linea, ieri sono state spostate a Porto Empedocle 630 persone. Numeri importanti, con 509 arrivi il 14 marzo, rispetto a quelli registrati da inizio anno che invece confermano il costante calo degli sbarchi cominciato a ottobre. Dal primo gennaio al 15 di marzo sono 6.560 gli sbarchi, un terzo dei 19.937 dello stesso periodo del 2023 (dati del Viminale). Numeri che il governo Meloni rivendica come il risultato delle iniziative portate avanti insieme ai Paesi di origine e transito. A non rallentare sono invece i flussi via mare verso l’Europa, che secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea Frontex si sarebbero spostati su una rotta ancora più mortale, quella che risale le coste africane verso le Canarie.

L’accordo con la Tunisia, la fornitura di mezzi alla Libia, ma anche i futuri centri per migranti in Albania. Tutti “tasselli” – così li ha definiti il 15 marzo, in un convegno di Fratelli d’Italia, il ministro degli Interni Matteo Piantedosi –, della cosiddetta “dimensione esterna” su cui punta il governo, essenzialmente per bloccare le partenze. Dai Paesi d’origine come la Costa d’Avorio, principale Stato di provenienza nel 2023. “L’anno scorso la Costa d’avorio era al top, quest’anno si è pressoché azzerata – ha detto Piantedosi –. Questo grazie all’iniziativa che abbiamo messo in campo, che ha dato vita a punti di controllo delle loro frontiere in ingresso e in uscita”. E fino ai Paesi di transito: Tunisia, Libia e ora l’Egitto, con i suoi 9 milioni di migranti presenti sul territorio. La premier Giorgia Meloni e la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, insieme ai primi ministri di Belgio e Grecia, saranno al Cairo domenica 16 marzo per siglare un memorandum sulla scia del “modello” tunisino. A preoccupare sono stavolta i profughi in fuga dal Sudan, dove il conflitto iniziato un anno fa ha creato 7 milioni di sfollati. Un’emergenza che già da mesi preme sui confini libici. Quanto all’Egitto, dei 450mila rifugiati e richiedenti asilo presenti, di cui il 40% minori, 213mila provengono dal Sudan. Ma a preoccupare è anche l’evoluzione del conflitto a Gaza. E l’intenzione dell’Unione è impedire che i profughi arrivino in Europa. Ma anche evitare che siano gli stessi egiziani a partire, a causa dell’instabilità economica e non solo, prevalentemente attraverso la Libia.

Con la stretta sulle partenze dalla Tunisia, i numeri sono tornati a salire in Libia, che l’Italia continua a sostenere con mezzi per il pattugliamento marittimo sia in Tripolitania che in Cirenaica, controllata dal generale Khalifa Haftar che in settimana ha incontrato il ministro Piantedosi. Nelle scorse ore, il comandante generale dell’Esercito nazionale libico ha affermato che al percorso politico “sono state date più opportunità di quanto si dovrebbe, senza che all’orizzonte appaiano segnali di soluzioni consensuali che portino a un giusto accordo di pace. Siamo pronti e non esiteremo a prendere decisioni coraggiose e ordini per affrontare chiunque voglia interferire con il destino del Paese”. Ennesima ombra su un’area che non accenna a stabilizzarsi e dove, anche attraverso lo stesso Egitto, arrivano i migranti che poi partono verso le coste italiane. Rotte da inibire, con accordi, mezzi, soldi. La recente sentenza della Cassazione sul caso Asso 28 ha ribadito come la Libia non è un Paese sicuro e riportarvi i migranti è un reato, visto l’alto rischio di subire trattamenti inumani e degradanti, sui quali la cosiddetta guardia costiera libica non può dare alcuna garanzia.

Sentenza alla quale il governo non dà peso, sostenendo che riguarda il 2018 e che oggi, “grazie alla collaborazione italiana ed europea, il Paese ha superato quella situazione”, ha detto Piantedosi (video). E infatti non arretra sulle accuse alle Ong di non collaborare con le autorità libiche e su queste accuse, per lo più già smentite da documenti e video, si basano i fermi amministrativi delle navi umanitarie, oggi giunte alle prime recidive col rischio di futuri sequestri per effetto dei decreti governativi. Fermi di 20 giorni ai quali si aggiungono le giornate di navigazione per raggiungere i porti assegnati, sempre distanti come Ancora, Ravenna, Genova. Scelta che tiene lontane le navi dalle zone di soccorso mentre, come accaduto in settimana in un’area poco presidiata, decine di persone sono morte di fame, sete e ustioni solari in una barca partita da Zawiya, in Libia, e alla deriva da giorni.

Intanto i flussi migratori che cercano di raggiungere l’Europa, come già accaduto in passato, si spostano su altre rotte. Secondo il rapporto dell’Agenzia Frontex, i numeri degli ingressi sono in linea con quelli dell’anno scorso, 31mila da gennaio. Ma se nel 2023, con la cifra record di 155mila sbarchi, il protagonista è stato il Mediterraneo centrale, nel 2024, con 12mila sbarchi finora, è il Mediterraneo occidentale a rappresentare la rotta principale per i subsahariani, e le Canarie l’obiettivo da raggiungere. Alla faccia del Piano della Commissione Ue sull’immigrazione illegale nel Mediterraneo Occidentale e nell’area atlantica. “L’obiettivo è sostenere gli Stati membri a rafforzare la gestione della migrazione lungo questa rotta – aveva scritto la Commissione nella presentazione del Piano – prevenendo le partenze irregolari e salvando vite umane, lavorando a stretto contatto con i principali Paesi partner”. In particolare Marocco, Senegal, Mauritania e Gambia, per i quali il piano prevede specifiche partnership. A loro di definire quali siano le “partenze illegali”, al netto delle garanzie sul rispetto dei diritti umani che, del resto, non hanno intralciato l’accordo con Tunisi, né saranno al centro dell’accordo egiziano.

Nel frattempo, come conferma Frontex, i migranti subsahariani si mettono in mano ad altri trafficanti e in viaggio sulle piroghe che risalgono le coste africane attraversando 800 chilometri di oceano atlantico, un’area non presidiata da navi di soccorso, né militari né civili. E infatti si muore, a centinaia dall’inizio dell’anno. Anche la rotta balcanica, per quanto riguarda gli ingressi in Europa, segna un calo del 65%, sempre secondo Frontex. Del resto sono in calo gli ingressi in Grecia dalla Turchia, che nutrono gran parte della rotta. Più in generale, rimane importante ricordare che tutto questo non corrisponde a una contrazione del numero di sfollati, profughi in fuga e rifugiati nel mondo, che anzi rimane costante crescita, per nuovi conflitti come quello in Ucraina, ma anche per crisi umanitarie più datate come quella in Afghanistan, primo Paese al mondo per persone in fuga. Nel 2023 sono stati almeno 8.565 i morti lungo le rotte migratorie in tutto il mondo, mai così tanti. Secondo le Nazioni Unite, una persona al mondo ogni 200 è oggi un rifugiato. Un dato che negli ultimi 2 anni è raddoppiato premendo su molti Paesi poveri, con i 46 meno sviluppati (1,3% del Pil mondiale) che ospitano il 20% dei rifugiati. Tornando a noi, le rotte che non si fermano nei Paesi immediatamente confinanti con quelli d’origine e puntano all’Europa impattano sulla cintura creata dagli accordi tra l’Ue e la sua frontiera esterna, una bolla instabile dal punto di vista politico, come Turchia e Libia hanno dimostrato, e drammaticamente precaria sul fronte dei diritti umani.

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