Circa 5,7 milioni di dipendenti privati guadagnano in media meno di 11mila euro lordi annui. È il risultato di un eccesso di part time, della precarietà e discontinuità lavorativa e della forte polarizzazione del mercato del lavoro tra una piccola quota di dirigenti e professionisti e una percentuale di addetti non qualificati assai più alta rispetto a quella osservata nelle altre grandi economie europee. A fare il punto è uno studio dell’Area politiche per lo sviluppo della Cgil, che riassume i più recenti dati di Eurostat e Ocse e gli osservatori sui dipendenti privati e pubblici dell’Inps. “Se passiamo dal lordo al netto, risulta che nel 2022 5,7 milioni di lavoratrici e lavoratori hanno guadagnato l’equivalente mensile di 850 euro, altri 2 milioni arrivano ad appena 1200 euro al mese. E la situazione non è certo migliorata nel 2023, anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9%”, commenta il segretario confederale della Cgil Christian Ferrari. “Si è trattato, peraltro, di un’inflazione da profitti contro cui il governo non ha posto alcun argine efficace, assistendo inerte all’impoverimento drammatico di milioni di lavoratori e pensionati. Non solo, non stanziando i fondi necessari a rinnovare adeguatamente i contratti di oltre 3 milioni di lavoratori pubblici, ha dato un pessimo esempio, come primo datore di lavoro del Paese, ai datori di lavoro privati”.

Dal confronto tra le maggiori economie dell’Eurozona emerge come nel 2022 il salario medio in Italia si sia attestato a 31.500 euro lordi annui, contro i 45.500 della Germania e 41.700 della Francia. Nel dettaglio, nel 2022 il salario medio dei 17 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato con almeno una giornata retribuita nell’anno (esclusi agricoli e domestici) si è attestato a 22.839 euro lordi annui, +4,2% rispetto al 2021 (+911 euro lordi annui), un aumento nettamente inferiore all’inflazione, pari all’8,7%. Per compensare pienamente l’aumento dei prezzi al consumo registrato nel solo 2022, il salario medio si sarebbe dovuto attestare a 23.800 euro lordi annui.

Il 59,7% della platea complessiva ha peraltro salari ancora più bassi: si tratta di 7,9 milioni di dipendenti discontinui e oltre 2,2 milioni di lavoratori part time per tutto l’anno. Per evidenziare le disparità mascherate dalla media lo studio distingue i lavoratori in otto diverse fasce, differenziate per stabilità del posto, continuità dell’impiego e tempo di lavoro (vedi tabella sotto). Per la prima, che comprende 1,8 milioni di dipendenti a termine e part time con contratti discontinui (cioè con periodi retribuiti inferiori ai 12 mesi), il salario lordo medio si ferma addirittura a 6.267 euro annui. Gli 1,5 milioni appartenenti alla seconda, più “fortunati” perché a tempo indeterminato ma comunque part time e attivi solo in alcune parti dell’anno, arrivano a 9.944 euro annui. Segue una platea di 2,2 milioni di dipendenti con contratti a termine e full time ma anch’essi operativi per meno di 12 mesi, con salari di 10.700 euro annui in media. Facendo le somme, si parla di quasi 5,7 milioni di persone che non arrivano a portare casa 11mila euro l’anno. .

Nel pubblico – 3,7 milioni di dipendenti – la media sale invece a 34.153 euro lordi annui, +6,3% rispetto al 2021. La differenza tra pubblico e privato è determinata in buona parte dal minor peso del part-time e della precarietà nei settori pubblici. Ma pure tra gli statali esistono notevoli divari: anche in questo caso lo studio li divide in fasce, stavolta quattro, e trova che la prima, formata da una piccola minoranza di tempi determinati in part time, guadagna solo 14.800 euro. La seconda, costituita da oltre 600mila tempi determinati full time, supera di poco i 15mila.

Tornando al confronto con gli altri big Ue, tra il 1992 e il 2022 i salari reali medi tedeschi e francesi hanno registrato una crescita rispettivamente del 22,9% e 31,6%) mentre quelli spagnoli sono rimasti fermi e gli italiani sono calati dello 0,9%. Il risultato è che il divario salariale italiano con la Germania si è
ulteriormente ampliato, da 5.200 euro del 1992 ai 13.900 del 2022, quello con la Francia ha cambiato di segno (da +132 euro a -10.200) e quello con la Spagna si e ridotto da 2.700 a 2.400 euro.

Le cause dell’affanno italiano? Una maggior quota di professioni non qualificate, l’alta incidenza del part time involontario (57,9%, la più alta di tutta l’Eurozona) e quella del lavoro a termine (16,9%) con una forte discontinuità lavorativa. Nel 2022, aggiunge lo studio, oltre la metà dei rapporti di lavoro cessati ha avuto una durata fino a 90 giorni e “benché in Italia si lavori comparativamente di più in termini orari, i salari medi e la loro quota sul Pil sono notevolmente più bassi”. A questo si aggiungono i lunghi ritardi nel rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, con il risultato che più del 50% dei dipendenti ha il contratto scaduto. Cioè non adeguato all’aumento dei prezzi. In una fase di alta inflazione cumulata, significa una forte diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori. E l’impatto, come risulta dai dati Istat, è molto più ampio sulle famiglie con minor capacità di spesa.

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