Tanto per sgombrare subito il campo dai bru-bru: ma come si permette Carlo Calenda di apostrofare “cialtrone” qualcuno che non sia l’immagine che vede riflessa nello specchio quando si rade? Questo funzionarietto di Confindustria che – come tutti i suoi pari – concentra sotto il simbolo dell’aquilotto un risibile mix di spocchia e banalità. Però “seria”. Quella progenie di serve padrone che si facevano belle menando per il naso i loro datori di lavoro; gestendo in nome di costoro l’organizzazione di rappresentanza che ha accompagnato passo dopo passo la de-industrializzazione italiana. E che ormai è stata declassata a stanza dei giochi di padroncini (molto spesso neppure industriali) ansiosi di fregiarsi con qualche carica e relativa poltrona. Gente inutile per non dire negativa, come il maestro del Calenda in Ferrari – l’Henry Ford del Terzo Millennio Luca Cordero di Montezemolo – e poi il Calenda stesso, sciagurato cessionario in veste ministeriale dell’Ilva nelle mani dei Mittal prendi i soldi e scappa.

Dunque, la quint’essenza della pochezza politica italiana, che si vorrebbe mascherare con operazioni abrakadabra destinate soltanto al tracheggiamento. E consentire di guadagnare tempo alle Destre meloniane (il/la cui leader non appellerò più con quel “puffetta”, che angosciava le anime belle del politicamente corretto, passando a un più muscolare “bulletta mannara”) e lasciar decantare le loro contraddizioni interne.

Ci si riferisce a quel tormentone chiamato “campo largo”, subito sposato dal combinato giornalistico Elkann-Cairo come stampella per il fido Pd (ma non ditelo alla Schlein, che pensa di guidare un partito di sinistra), inteso come il compiacente accompagnatore di decennali operazioni accaparratorie a vantaggio di lor signori. Che – al vaticinato esaurimento del tocco magico della bulletta mannara, smascherata quale cabarettista rionale (de’ Garbatella) – potrebbe tornare in funzione nel guardianaggio del Paese. E perché ciò avvenga risulta necessario mettere in trappola la seconda forza in crescita dello schieramento attualmente all’opposizione: i Cinquestelle di Giuseppe Conte. Vincolandone l’irriducibile natura riottosa nei confronti dell’establishment affaristico grazie al riconoscimento di subalternità alla leadership dei fidati piddini. Quanto Conte non si dichiara disponibile a concedere.

Da qui la trappola di cui si diceva: il mantra contabile “uniti si vince”. Per la cui certificazione quale verità indubitabile è ora sceso in campo un vecchio mestierante di mille recite come Romano Prodi, che dietro l’ingannevole bonomia emiliana ha sempre mascherato la sua vera natura di uomo dell’ancien régime. Come ne diede palese dimostrazione al tempo delle privatizzazioni, con il dono alla Fiat di Alfa Romeo, rapidamente svuotata in marchio commerciale (quando la Ford offriva un mucchio di dollari, puntando a valorizzarne le alte potenzialità costruttive). Accompagnate da vendita all’incanto e liquidazione dell’intero patrimonio industriale delle Partecipazioni Statali, che al loro interno racchiudevano nicchie tecnologiche inarrivabili per le fabbriche private, concentrate su merceologie accessibili alla concorrenza dei Paesi emergenti (le “tre effe” food, fashion, furniture: cibo, moda, mobili).

Del resto ci si è dimenticati che il presidente dell’Iri, poi asceso due volte a primo ministro, era l’altro italiano che partecipava con Massimo D’Alema ai meeting promossi dal duo Bill Clinton/Tony Blair e animati dal presidente della London School Tony Giddens, in cui si celebrava il mito della Terza Via. Ossia il trompe l’oeil, il miraggio ingannevole secondo cui la sinistra avrebbe vinto le elezioni facendo proprio il programma della destra. Una tesi elettoralmente disastrosa ma che ha accompagnato la presa di potere negli organigrammi interni dei partiti ex-laburisti/progressisti della genia di carrieristi opportunisti che ha spregiudicatamente “scaricato” il proprio elettorato per applicare ricette all’insegna dell’inciucio.

Il guaio è che l’elettorato presunto “captive” si è accorto dell’inganno ed è emigrato altrove. Magari in quell’Indignazione che è diventata un fenomeno di massa emerso nel 2011, ma che era latente da tempo. Che i Beppe Grillo e i GianRoberto Casaleggio presumevano di aver inventato quando ne hanno solo intercettato l’onda italiana. Come Podemos in Spagna o il duo Bernie Sanders e Jeremy Corbyn nel mondo anglosassone. Con di più – nel caso italiano – la zavorra del confusionismo ideologico del duo fondatore qualunquista (né destra né sinistra, uno vale uno, la democrazia diretta disintermediata, ecc.). Che la leadership attuale cerca di scrostare.

Fermo restando che l’origine indignata recalcitra alle ammucchiate elettoralistiche con la fauna da regime targata Pd. Per cui si ripete lo stesso effetto di quando nella Prima Repubblica ci fu la fusione PSI/PSDI: si disse che 1+1 avrebbe fatto 3 e invece fu 1 e mezzo. Il motivo per cui il campo largo non va da nessuna parte. E spiace per Pier Luigi Bersani, l’unico sincero nell’auspicarlo.

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