Le botte dentro la cella, quindi gli schiaffi e i calci anche al compagno, poi un tentativo di depistaggio con annotazioni di servizio fasulle e l’interessamento alle telecamere di sicurezza. Perfino un accredito di 80 euro sul conto corrente della vittima per provare a farlo tacere e una pagina del registro medico strappata. Ma il pestaggio ai danni di due detenuti, uno dei quali invalido, è comunque venuto a galla, ricostruito nei dettagli secondo la procura di Foggia, che indaga su 15 persone – compresi alcuni medici – e ha ottenuto gli arresti domiciliari per dieci agenti della Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere del capoluogo dauno. Una verità emersa grazie all’ostinazione di una delle vittime e di un altro detenuto che con uno stratagemma sono riusciti a far arrivare una lettera al Tribunale nella quale raccontavano quanto era accaduto. Da lì le indagini dei carabinieri, le riprese delle videocamere di sorveglianza, le intercettazioni e ora le parole del giudice per le indagini preliminari Carlo Protano che – sposando la ricostruzione degli inquirenti – parla apertamente di “clima di omertà”, di tentativi di “ostacolare le indagini” e di “intimidire” i detenuti. Azioni descritte come “precise prassi operative” e della creazione di “un’area di impunità da sfruttare per mantenere la disciplina con la violenza” così da “semplificare” il lavoro dentro la casa circondariale.
Il pestaggio
Erano poliziotti ma si comportavano come “lottatori all’interno di un ring di pugilato” e avrebbero agito per “perseguire una propria forma di soddisfazione accanendosi” su un detenuto al quale provocarono “lesioni al capo, a un occhio e al torace, acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico”. Furono vere e proprie torture, secondo chi indaga. Il gip le ha condensate in 95 pagine ricostruendo il pestaggio iniziato attorno alle 8.30 dell’11 agosto dello scorso anno. In maniera attiva o passiva parteciparono – stando alla ricostruzione – gli agenti Giovanni Di Pasqua, Vittorio Vitale e Nicola Calabrese come “principali protagonisti” insieme ai colleghi Vincenzo Piccirillo, Raffaele Coccia, Giuseppe Toziano, Pasquale D’Errico, Flenisio Casiere, Massimo Folliero e Annalisa Santacroce. Inventarono di sana pianta una perquisizione nella cella di un detenuto e invece lo aggredirono. “Mi hanno torturato violentemente con calci e pugni, con un pestaggio sanguinoso”, ha messo nero su bianco la vittima che riportò un sospetto trauma cranico e una sospetta frattura. Il motivo? Legato probabilmente a un atto autolesionistico che l’uomo aveva tentato il giorno precedente davanti all’agente Santacroce, una vicenda che l’avrebbe turbata facendo scattare la spedizione punitiva dei colleghi, tra i quali c’è anche il suo compagno. Ma se nessuno degli agenti tentò di stoppare chi effettivamente stava picchiando il detenuto, lo stesso non fece il compagno di cella. Rimettendoci anche lui. “Ho provato a fermarli ma hanno picchiato anche me – ha raccontato – Mi hanno dato cinque, sei schiaffi in faccia”.
Lo stratagemma per denunciare e l’inchiesta
Le violenze contro di lui sono documentate dai filmati e collimano con le versioni fornite dalle vittime e da un terzo detenuto, che ascoltò tutto dalla cella accanto. Pochi giorni dopo, proprio grazie alla sua insistenza, la vicenda ha iniziato a prendere la strada che ha portato agli arresti. È lui ha convincere il primo detenuto picchiato a sporgere denuncia e, con una scusa, riesce a far arrivare una lettera in tribunale nella quale viene ricostruito quanto era avvenuto. Una “drammatica richiesta di aiuto”, la chiama il giudice, maturata in un “clima di sopraffazione” dal quale emerge un “sentimento di disperazione e angoscia” delle vittime. Il racconto, secondo il gip, ha trovato “riscontro” nelle immagini delle videocamere nonostante gli agenti “fossero convinti che fossero state cancellate” e hanno provato a “scongiurarne l’acquisizione”. Negli audio si sentono “urla e suppliche di dolore” e gli insulti degli agenti durante il pestaggio nella cella. Mentre le botte al secondo detenuto sono riprese ‘in diretta’ nella stanza del centralino: “Indifeso, scalzo e senza alcuna possibilità di replica, veniva messo prima a un angolo e poi all’altro e, come veri lottatori all’interno di un ring di pugilato, i poliziotti sferravano continui colpi al volto e al capo”, scrive il giudice.
I tentativi di depistaggio
Nei giorni successivi, gli sforzi degli agenti furono tutti indirizzati a far scomparire le tracce di quanto accaduto per “depistare eventuali indagini”. Il giudice ricostruisce come i detenuti furono costretti a firmare falsi verbali “precostituiti in modo artefatto” che contrastano con le videoregistrazioni e alcuni degli indagati arrivarono a cercare firme a caso di loro colleghi per sottoscriverli. Vennero anche compilati certificati medici sospetti e firmate relazioni di servizio per giustificare la perquisizione nelle quali si raccontava di un’aggressione con la lametta da parte della prima vittima. Mai esistita, secondo il gudice. Di Pasqua e un altro agente andarono anche nella sala regia, dove vengono monitorate le telecamere di sorveglianza, chiedendo informazioni sulle tempistiche di conservazione. Qualcuno arrivò a strappare una pagina del registro del medico dove era annotata la visita di una delle vittime. Alcuni dei poliziotti tentarono di blandire una delle due vittime accreditando sul conto corrente 78 euro, fatti passare per una donazione di un’associazione benefica. Il prezzo del silenzio, tutto inutile. L’indagine era già partita, i racconti dei tre detenuti sono stati considerati genuini e poi ci sono le riprese delle telecamere, inequivocabili, le urla, le richieste di aiuto. Le “immagini orribili”, come le ha chiamate un detenuto-testimone, l’uomo che iniziato a scardinare il muro di silenzio.