Anche la Banca europea degli investimenti deve indossare l’elmetto e contribuire alla transizione a quella che Charles Michel definisce esplicitamente un'”economia di guerra“. Poco importa se al momento le è vietato finanziare la produzione di armi e munizioni in quanto incompatibili con gli obiettivi di politica pubblica a cui deve contribuire, dalla sostenibilità ambientale alla crescita sostenibile. Dopo il Parlamento europeo, che ha votato il 28 febbraio una risoluzione ad hoc, ora è il Consiglio Ue a tirare per la giacca Nadia Calviño, da gennaio presidente di quella che, con un bilancio di 544 miliardi di dollari e 560 miliardi di prestiti in essere o in rampa di lancio, è la più grande istituzione finanziaria multilaterale al mondo.
Nella bozza di conclusioni del vertice dei capi di Stato e di governo in corso a Bruxelles si legge che occorre migliorare l’accesso dell’industria della difesa ai finanziamenti pubblici e privati e il braccio finanziario dell’Unione è quindi “invitato ad adattare le sue politiche di prestito e la sua attuale definizione di beni a duplice uso“. Ovvero i prodotti che possono avere uso sia civile sia militare: vedi chip, sensori, laser, droni, equipaggiamenti elettronici per aerei e navi. Gli azionisti della banca, cioè gli stessi 27 Paesi che siedono nel board, dovranno ora decidere come rispondere all’appello.
In realtà il sì è scontato, perché 14 Stati le cui quote valgono tre quarti del capitale hanno preso posizione già lunedì scorso dicendosi convinti, in una lettera inviata a Michel, che sia necessario “esplorare diverse possibilità che permettano alla Bei di investire in attività legate alla difesa al di là degli attuali progetti a duplice uso”. E Calviño è già al lavoro per presentare ai ministri delle Finanze, alla riunione del 12 aprile, una gamma di opzioni su come allargare la definizione e portata delle tecnologie a duplice uso. Sul sito Euractiv, una fonte qualificata ha spiegato che le ipotesi sul tavolo sono almeno tre. Dalla più conservativa, cioè limitarsi a rimanere nel perimetro del dual-use ma gonfiando il più possibile la parte allocata all’uso militare, alla più muscolare: modificare i criteri di ammissibilità degli investimenti per includere armi e artiglieria. In mezzo c’è la possibilità – che sarebbe la preferita dai vertici – di allargare il mandato della Banca ai soli sistemi militari difensivi come radar, tecnologia satellitare, strumenti cybersicurezza ed equipaggiamento.
Quasi tutte le decisioni in seno alla Bei vengono prese dal board dei governatori a maggioranza semplice pari al 50% del capitale sottoscritto. Italia, Finlandia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Romania e Svezia, i 14 firmatari della missiva girata a Michel lunedì scorso, superano abbondantemente l’asticella. Un potenziale impedimento sollevato dalla stessa Bei, secondo Euractiv, è rappresentato dal rischio di un eccessivo aumento della leva finanziaria, cioè il rapporto tra capitale proprio e debiti contratti sul mercato per finanziare i prestiti: lo statuto della banca fissa un limite pari a 2,5. Aumentare gli esborsi per il settore della difesa potrebbe costringere a rivederlo al rialzo oppure aumentare il capitale, cosa avvenuta solo nel 2013 dopo la crisi del debito sovrano. Alcuni Paesi sarebbero preoccupati di un potenziale impatto sul merito di credito della Bei, che oggi gode della tripla A e di ottimi rating ambientali, sociali e di governance. Non a caso la bozza di conclusioni del Consiglio Ue specifica che la definizione di beni a duplice uso va sì ripensata ma “salvaguardando la capacità di finanziamento” della banca.
Mobilitare la Bei sarebbe il primo passo del rafforzamento dell’industria bellica europea propugnato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen e ora anche da Michel. Per il resto si naviga a vista. Il nuovo piano di investimenti presentato a marzo conta su soli 1,5 miliardi di euro, oltre all’invito ad aumentare gli acquisti congiunti. L’idea di un fondo comune da 100 miliardi ispirato al Recovery fund e al programma Sure, avanzata dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla premier estone Kaja Kallas, ha spaccato ancora una volta i Ventisette tra i frugali del Nord Europa e il fronte che chiede solidarietà (bellica). Trovare un accordo sembra difficile. Una via intermedia potrebbe essere rappresentata dall’emissione di project bond da parte di più Paesi membri per progetti industriali comuni. Ma nella bozza del Consiglio non ce n’è traccia.