Da 29 anni c’è un popolo che si mette in marcia il primo giorno di primavera per chiedere verità, che è già una forma di giustizia. E’ il popolo dei familiari delle vittime innocenti delle mafie e di quanti respingono la tentazione dell’indifferenza, preferendo sentirsi umani, ribelli alla disperazione che nasce dall’abitudine al peggio.
Questo popolo merita rispetto.
Anche perché il dolore per la violenza subita, patita da chi si ama, com-patita tra con-sorti, è una delle poche energie in grado di opporsi alla deriva liberticida del nostro tempo, che ha nella criminalità organizzata di stampo mafioso soltanto una delle sue manifestazioni più brutali. Non è forse ancora una volta questa la lezione che ci arriva dalla vicenda di Giulio Regeni? Se non fosse stato per la determinazione implacabile della sua mamma e del suo papà, ora non avremmo nemmeno un processo aperto.
Quando il dolore non fa implodere, diventa esplosivo, genera trasformazione, altro che “retorica vittimaria” come qualcuno, forse per assolvere la propria resa, sostiene sprezzante.
Questo popolo oggi cammina per il centro di Roma e non potrebbe esserci posto più azzeccato per “georeferenziare” simbolicamente l’epicentro del conflitto che per mano mafiosa ha fatto tante vittime: la capitale, il centro del potere, a ricordare che non c’è mafia senza politica corrotta, avida, violenta.
Questa XXIX giornata ha in questo senso un portato speciale, perché cadono nel 2024 alcuni “trentennali” che rimandano direttamente al cuore del problema italiano, irrisolto: di quanta mafia è impastato il presente che stiamo vivendo? Detto altrimenti: quanto di ciò che sta capitando oggi alla Repubblica dipende da ciò che è stato fatto, disfatto e nascosto nel 1994?
Il 1994, ovvero l’anno della strage mancata all’Olimpico di Roma: l’autobomba pronta e il telecomando che non funziona. Non so in quanti fossero informati “in diretta” dell’attentato “fallito”, ma so che qualche giorno dopo a Milano furono arrestati i fratelli Graviano, mentre se ne stavano fin troppo tranquilli da Gigi il Cacciatore con fidanzate e amici al seguito. Il 1994 è l’anno in cui Antonio Di Pietro lascia la toga sul banco dell’accusa, per potersi difendere dai dossieraggi infami fatti preparare con solerzia dal blocco di potere che aveva più minacciato. Il 1994 è l’anno nel quale l’impero Mediaset, ormai orbo del grande mentore socialista che proprio in quell’anno si sottrarrà per sempre alla giustizia, si trasforma in impero politico, provocando una distorsione nella democrazia italiana mai più sanata.
Il 1994 è l’anno nel quale a Mogadiscio vengono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin perché restassero chiusi nuovi “armadi della vergogna” e si aprisse un altro scellerato depistaggio, che troverà negli esiti della Commissione parlamentare di inchiesta voluta dieci anni più tardi la più solenne e desolante certificazione (presidente Taormina). Il 1994 è l’anno in cui, giustappunto, si anima il “pupo-pentito” Scarantino, ovvero il depistaggio per antonomasia.
La necessaria brevità di questo scritto fa sì che io possa soltanto collezionare uno accanto all’altro questi fatti, ma voglio essere chiaro: per me non rappresentano una sequenza accomunata da una banale coincidenza storica, al contrario rappresentano episodi visibili e collegabili della più importante e drammatica ristrutturazione del potere nel nostro Paese dalla fine della seconda guerra mondiale. Una ristrutturazione sanguinosa, nella quale le mafie hanno preteso (e ottenuto) di avere un posto, cominciata nel 1989 e passata per le stragi del ’92 e del ’93, con buona pace della sentenza liquidatoria con la quale la Cassazione ha annientato il processo “Trattativa” e con esso pure fatti graniticamente dimostrati; e pure con buona pace della Presidente Chiara Colosimo, che si è sforzata (prima che la Provvidenza le offrisse gli “spioni” come diversivo) di trattare la strage di Via D’Amelio come la puntata di un’altra serie tv.
In questa profonda e dolorosa ristrutturazione i negoziati furono portati avanti da diversi attori (non soltanto mafiosi) con la violenza che si confà a simili passaggi, una violenza criminale alla quale si preferì non opporre unicamente il rigore della legge di uno Stato di diritto (come avrebbe voluto Paolo Borsellino), ma anche una certa dose di mediazione politica (per il “bene” di quale Repubblica?) ed è precisamente in questa ottica che si deve leggere un episodio chiave di inizio 1994: l’assassinio di due giovani Carabinieri, Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati mentre erano di pattuglia in autostrada, nei pressi dello svincolo di Scilla, Calabria. Un segnale della complicità della ‘ndrangheta nella strategia terroristico-eversiva voluta da Cosa Nostra & C.
Ebbene: da poco è disponibile la monumentale motivazione della sentenza di Appello del processo “‘Ndrangheta stragista”, che si sta celebrando a Reggio Calabria, procurato dall’aggiunto Giuseppe Lombardo, con la quale sono state confermate le condanne di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Mi chiedo: vorrà la Presidente Colosimo disporne l’immediata acquisizione? Vorrà farne oggetto di studio? Quella sentenza è una miniera di fatti. Fatti mostruosi, più degli accessi abusivi alle banche dati. Fatti che, in quanto tali e come quegli altri, resisteranno a qualunque “colpo di spugna”. Fatti nei quali bisognerebbe avere il coraggio di mettere le mani, per poi guardare negli occhi i familiari delle vittime delle mafie senza provare vergogna.