Trent’anni dopo. Ilaria Alpi oggi avrebbe quasi 63 anni, Miran Hrovatin 74 già compiuti. Invece, la loro esistenza si è arrestata il 20 marzo 1994, assai lontano da casa: a Mogadiscio, in un caldo e arido pomeriggio assolato, un colpo in testa a lei, uno sparo di kalashnikov a lui, a opera di un commando omicida che aveva l’ordine di eliminarli. Stroncate due vite, finite due storie. Chiusa la bocca ai giornalisti, non sappiamo cosa stavano per raccontarci. Ne valeva la pena? Un’inchiesta vale una vita?

Una risposta me l’hanno data oggi centinaia di ragazzini, in una palestra di Lacchiarella, seduti in silenzio a sentir parlare di due coraggiosi cronisti che hanno perduto la vita per “cercare la verità e per raccontarla”. “Perché un giornalista ucciso è un pezzo di democrazia che ci viene negato”. Così è stato detto ai giovani studenti. Per loro, perché prendano coscienza di cosa viene loro rubato quando è negata violentemente l’informazione, sì, probabilmente ne valeva la pena. Non per le vuote commemorazioni che abbiamo visto e sentito ieri, fatte da parte di chi dovrebbe e avrebbe il potere di ottenere verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria e Miran.

Dopo 30 anni siamo ancora a chiederci: chi ha comandato quel duplice omicidio? Chi ha pagato quei sicari? In un libro pubblicato 5 anni fa, pubblicato da RoundRobin, insieme al collega e amico Luigi Grimaldi, scrivevamo:

“Il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio sono accadute molte cose. Ma prima di tutto si è consumata una tragedia umana, la morte di due giovani e valorosi giornalisti. Due persone che in molti modi sono diventate, loro malgrado, un modello per chiunque lavori nel mondo della comunicazione e dell’informazione. Ilaria e Miran credevano nel giornalismo, nel potere della verità e, per dirla con le parole di un altro martire, Paolo Borsellino, in quel ‘fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’. Un profumo che né l’odore del tritolo, né quello della polvere da sparo sono riusciti a coprire”.

“Un’aria fresca”, aggiungevamo, “che nemmeno venticinque anni di muri di gomma fatti di complicità, inerzie, silenzi, omissioni, depistaggi, bieche strumentalizzazioni e clamorose ipocrisie, che hanno accompagnato sin dall’inizio questa vicenda, sono riusciti a dissolvere del tutto. Che, in questo caso, come in pochi altri, è anche profumo di verità e di giustizia. Proprio sulle ali di quel “profumo di libertà e di verità” per ognuno di noi è cominciato un impegno che ci ha seguito, alla fin fine, per lunga parte della nostra vita e che qualcuno vorrebbe fossimo disposti ad archiviare”.

L’inchiesta giudiziaria su questo caso è formalmente ancora aperta alla Procura di Roma. E attendiamo ancora i risultati della serie di indagini sollecitate dai Gip nel respingere ben tre richieste di archiviazione, indagini di cui non si sa nulla. Intanto, la vicenda scivola nel silenzio, esattamente come volevano i responsabili della morte dei due giornalisti.

Ilaria e Miran avevano davvero messo il dito in un ingranaggio gigantesco: quell’immenso giro di lucroso malaffare che solo in un Paese fallito e in guerra come la Somalia si poteva realizzare. Quegli affari illeciti e mortiferi che non erano però appannaggio di qualche faccendiere o filibustiere di bassa lega: erano “affare di Stato”, anzi “affare di Stati” perché mettevano in gioco non solo il nostro Paese e la misera Somalia, non solo la politica, ma anche la geopolitica. Oggi c’è ampia documentazione sui traffici d’armi e rifiuti messi in atto da e per il Paese africano, basta andare a vedere i Rapporti Onu (che ben pochi conoscono) per comprendere la grande importanza internazionale delle questioni su cui si era messa a indagare Ilaria.

E è probabilmente per questo che il caso Alpi-Hrovatin è ancora l’ennesimo caso senza verità giudiziaria, senza colpevoli, senza mandanti, come tanti altri misteri italiani. Cala la nebbia, come spesso accade sui delitti di Stato. In questi anni l’abbiamo detto e ridetto: “Noi non archiviamo”. Ma non basta più. Visto che chi dovrebbe farlo non lo fa, noi giornalisti, almeno noi giornalisti, torniamo a dire “Noi continueremo a indagare”, ossia a fare per Ilaria e Miran ciò che loro hanno fatto per passione di verità e giustizia.

La nebbia dell’oblio sul loro assassinio non deve cadere, come neppure su quelle verità che ci avrebbero voluto raccontare.

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