Il Consiglio di Stato dà ragione alla comunità islamica di Monfalcone sul diritto a pregare e a celebrare il Ramadan come i dettami religiosi impongono. Nella guerra in corso da mesi tra la sindaca leghista Anna Maria Cisint e il centro culturale Darus Salaam, con due moschee chiuse per supposte irregolarità urbanistiche, l’ordinanza della seconda sezione giurisdizionale riforma un primo pronunciamento del Tar del Friuli Venezia Giulia che aveva respinto la richiesta di sospensiva per poter riaprire le moschee. I giudici non si esprimono sul merito, ma rendendosi conto della complessità e delicatezza della decisione, hanno sollecitato il Tar ad anticipare quella discussione. Nel frattempo emettono un provvedimento che sembra avere più un carattere di moral suasion che di pronunciamento giuridico in senso stretto. E impongono al Comune di Monfalcone di avviare subito e non oltre 7 giorni un tavolo per individuare una soluzione pratica, seppur temporanea. E’ ciò che la sindaca Anna Maria Cisint non ha voluto fare finora, nonostante un primo giudizio del Consiglio di Stato.
Con decreto del 29 febbraio scorso il presidente della Sezione aveva sollecitato “un immediato confronto tra l’associazione ricorrente e la competente autorità comunale al fine di individuare luoghi, anche alternativi, ove praticare in sicurezza, anche solo provvisoriamente, il culto religioso condiviso tra gli appartenenti alla associazione”. Un altro decreto presidenziale (11 marzo) aveva osservato che “la libertà di culto, che è libertà individuale prima che collettiva, non sembra poter subire pregiudizi irreparabili per il caso in cui l’immobile continui ad essere utilizzato quale luogo di incontro tra gli associati, secondo la sua originaria e persistente destinazione”. Inoltre, “la libertà di culto e di preghiera, in quanto diritto inviolabile dell’uomo, è garantita in ogni luogo in forma individuale e, col consenso degli altri, anche in forma collettiva, di guisa che ai membri della associazione ricorrente non potrà essere impedito il diritto a riunirsi liberamente nell’immobile e quivi esercitare le loro libere e incomprimibili prerogative, conformi al loro credo religioso, nel rispetto tuttavia della cornice normativa”.
Quest’ultima è costituita dagli strumenti urbanistici che la sindaca aveva indicato, sostenendo che quegli edifici non potevano essere adibiti al culto (anche se in realtà sono utilizzati da quasi vent’anni anche con quello scopo). I giudici affermano che esistono anche “altre esigenze di cui devono farsi carico i pubblici poteri nel regolamentarne l’esercizio in luoghi a ciò deputati, in modo che ne siano assicurate le condizioni di igiene, sicurezza, ordine pubblico, corretto insediamento urbanistico, poiché è evidente che un immobile, in tesi carente dei requisiti strutturali o di zonizzazione, non potrebbe essere trasformato in una moschea o, allo stesso modo, in una chiesa per l’esercizio del culto religioso”.
Di questi aspetti si occuperà la decisione nel merito. Nel frattempo i giudici scelgono una via di mediazione: “Nella presente fase cautelare va preservato un adeguato bilanciamento tra i contrapposti interessi, pubblico (alla salvaguardia della pubblica incolumità, in connessione con l’incontestato sovraffollamento registrato nei locali) e privato (all’esercizio del culto anche in forma collettiva)”. Stabiliscono, quindi, che vadano adottate “misure interinali alternative che consentano ai credenti di potere comunque osservare le prescrizioni religiose” e quindi l’amministrazione comunale “è tenuta ad individuare, in contraddittorio con gli interessati e con spirito di reciproca e leale collaborazione siti alternativi accessibili e dignitosi per consentire ai credenti l’esercizio della preghiera”.
Il problema è proprio la “reciproca e leale collaborazione” che a Monfalcone sembra sparita dal lessico dell’amministrazione pubblica, visto il muro contro muro tra sindaco e islamici (che sono il 30 per cento della popolazione). Per questo i giudici invitano la Cisint e la sua amministrazione a “prendere in attenta considerazione le osservazioni critiche mosse dall’Associazione rispetto ai luoghi nel frattempo individuati dalla Questura (in quanto, si dice, posti ‘all’aperto ed ubicati in punti del tutto defilati e periferici’)”. Un tavolo di confronto dovrà essere convocato “con la massima sollecitudine e comunque entro 7 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza”.
Secondo la sindaco Cisint la decisione del Consiglio di Stato “chiarisce in maniera indiscutibile che i due centri islamici non possono essere utilizzati come luoghi di preghiera, ribadendo la fondatezza delle motivazioni dell’ente locale”. In realtà l’ordinanza non entra nel merito, ma appare interlocutoria. Per questo l’avvocato Latorraca ha scritto al Comune, chiedendo l’immediata convocazione di un tavolo per trovare una soluzione temporanea al problema dei luoghi ove effettuare le preghiere del Ramadan: “Ci attendiamo ora che il Comune – ferma la nostra disponibilità al confronto – convochi, senza ulteriori indugi, dopo tre provvedimenti giurisdizionali favorevoli alle Associazioni”.