di Monica Valendino
Le menti più acute che attualmente governano l’Occidente non passano giorno in cui non promuovano una guerra contro la Russia che si preannuncia devastante per il Vecchio Continente e, soprattutto, per i suoi cittadini che in Putin possono vedere ciò che vogliono, ma chi ha un briciolo di sale in zucca non lo vede di certo come un Napoleone col colbacco. Anzi, a interpretare il condottiero conquistatore è sempre più Macron, ben accompagnato dai vertici Ue che dopo aver ubbidito sommessamente per anni alle volontà a stelle e strisce hanno iniziato a fiutare che se l’America sta lasciando il campo allora è bene occuparlo da soli. Peccato che il campo in questione è l’Ucraina e che ogni mossa ulteriore in avanti non potrà non portare che a un confronto diretto. Probabilmente nucleare, almeno a livello tattico se non strategico se non ci si ferma in tempo.
La cosa che più stupisce sono le argomentazioni propagandistiche che i governanti usano, cose tipo “serve prepararsi alla guerra per avere la pace”, cosa che nemmeno Orwell avrebbe pensato in maniera così spudoratamente idiota. Forse sarebbe opportuno un corso etimologico rapido per far comprendere di cosa stanno parlando.
La pace deriva dal latino “pax” che a sua volta deriva dal sanscrito “pak”, ovvero trattativa. Proprio quella che l’Occidente ripudia al pari di Zelensky che l’ha perfino proibita per decreto. E pensare che trattare deriva da “trahere”, trarre qualcosa. Per farlo serve un negoziato, un “negotium”, una negazione dell’ozio per i latini, quell’ozio che dev’essere preso come un momento virtuoso e pacifico dove evitare le trattative che, inevitabilmente, portano a concedere qualcosa e a prendere quello che di meglio si può ottenere in base al momento in cui si tengono. Per cui, più si protrae questa situazione con la Russia, meno si potrà ottenere da una trattativa.
Anche la rivendicazione dei confini appare un metodo propagandistico per portare avanti la linea bellicosa, dimenticandosi di alcune considerazioni fondamentali: tutti i confini sono convenzioni, in attesa di essere superate; si può superare qualunque convenzione, solo se prima si può concepire di poterlo fare, ma non esiste un confine naturale ogni limite che vediamo lo abbiamo indicato noi stessi per opportunismo, ma da sempre non c’è confine che non venga superato o rimodellato.
Del resto è una nozione ambigua: cum-finis, la fine che è (che ho) in comune con l’altro. Luogo quindi non solo di separatezza, ma anche di attraversamenti: legali, e talvolta clandestini, anche se quasi sempre tollerati.
Il confine è questo. Separa formalmente le identità, e unisce paradossalmente le persone: che, spesso, al di qua e al di là del confine, sono tra loro più simili di quanto siano le terre e le genti di confine rispetto ai loro rispettivi centri, alle capitali del paese cui appartengono e li governano.
Anche perché quando si parla di confine si parla inevitabilmente di vicino. Dal latino “vicus”, ovvero rione, il vicolo, il minimo comun denominatore delle proprietà romane, il luogo dove più di ogni altro si vive la quotidianità. Tanto che si parla di vicino di casa, con il quale spesso si cerca di tenere buoni rapporti, si cerca un qualcuno a cui appoggiarsi in caso di bisogno. Anche perché la peggior jattura possibile è avere un vicino con cui si litiga quotidianamente. Per cui a volte serve “trattare”, trovare un equilibrio anche rinunciando a qualcosa pur di convivere bene.
Cum Vivere appunto, vivere assieme perché derivato sempre dal latino contubernium, composto di “con” insieme e taberna osteria, ma anche capanna, abitazione. Coabitare, condividere, convivere. Tutto porta alla ragione, alla “ratio”, l’inevitabile discorso filosofico che nell’antichità classica hanno i termini di λόγος e, appunto, ratio null’altro che la generale attività ragionatrice-discorsiva dell’uomo, onde esso si distingue tipicamente da tutti gli altri animali.
Ma che oggi sembra essersi dimenticato drammaticamente di tutto ciò.