“È un “contratto sociale” che è entrato in crisi: Milano offre ancora lavoro e opportunità, ma non prospettive. Chi lavora a Milano finisce, in un numero crescente di casi, per non potersi permettere di vivere in città e al tempo stesso risparmiare per costruirsi un futuro”. Parole scritte nella presentazione dell’evento ‘Per un salario giusto a Milano’, che il sindaco Beppe Sala aprirà nella mattinata di venerdì 22 marzo a Palazzo Marino. Nemmeno i suoi due mandati, del resto, hanno invertito la tendenza della capitale economica a cacciare chi non se la può permettere. Anzi, il metro quadro non ha mai corso tanto e la città fatica a trovare personale per il trasporto pubblico, le scuole, gli ospedali. Anche i dipendenti dei nove Centri per l’impiego della Città metropolitana di Milano, l’ex provincia anch’essa guidata da Sala, ne hanno abbastanza: li pagano poco, li trattano male, li gestiscono peggio e l’utenza, esasperata dai disservizi, un giorno sì e l’altro pure li prende a male parole. Così se ne vanno, alcuni ancora in prova. Milano si è già bruciata un terzo del famoso potenziamento dei Centri per l’impiego, e il nuovo piano di assunzioni è già stato rivisto al rialzo, più volte. “Sforzo vano, perché all’orizzonte ci sono altri concorsi, a partire da quelli regionali, e sarà una nuova emorragia”, assicurano i dipendenti, che dopo due anni di inascoltati appelli, il 19 marzo si sono riuniti in assemblea e all’unanimità hanno votato per lo stato di agitazione.

Se c’è un posto dove i servizi al lavoro dovrebbero funzionare è Milano. Invece non è così. Unico caso in Italia insieme a quello di Monza Brianza, a gestire i centri di Milano, Corsico, Legnano, Magenta, Melzo, Cinisello, Rho, Rozzano e San Donato è l’Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro della Provincia di Milano, Afol. Una partecipata di Città metropolitana, del capoluogo e di altri comuni del territorio, che ai suoi dipendenti diretti affianca quelli pubblici in distacco, compresi gli assunti col piano di potenziamento. Ma dei 195 nuovi ingressi, il 30 per cento si è già dimesso e altri lo faranno presto. Perché? Il contratto del pubblico impiego è misero, una media di 1.400 euro al mese per gente titolata a cui spesso tocca vivere fuori provincia o addirittura fuori regione, e che alla prima occasione passa ad altro. Ma il costo della vita non è l’unico problema. L’utenza è tosta, la mole di lavoro enorme. L’assemblea dei lavoratori ha messo per iscritto anche il mancato riconoscimento delle indennità di disagio, quelle per il lavoro di sportello a contatto con un’utenza spesso frustrata dai disservizi se non esasperata dalla stessa gestione del centro. In quello di Milano, ad esempio, le persone si mettono in fila alle sette del mattino per ricevere un numero alle nove e poi chissà, magari attendere fino all’una, sempre di riuscire a entrare perché tutto è contingentato. La sintesi di chi ci lavora: “Un circolo vizioso: siamo pochi, gli utenti sono tanti. Le condizioni di lavoro inadeguate mettono in fuga i lavoratori, che diminuiscono e in rapporto gli utenti sono sempre di più”.

I problemi li mette in fila il documento con cui l’assemblea dà mandato ai sindacati di indire lo stato di agitazione. “Il degrado degli ambienti e la sicurezza; la definizione delle attività per cui erogare l’indennità di condizioni di lavoro; la difformità e difficoltà nella fruizione dello smart working; la flessibilità oraria; la fruizione delle ferie; l’effettiva possibilità di accedere alla formazione; la necessità di sottoscrivere un addendum al contratto decentrato; la necessità di porre dei correttivi rispetto all’attuale sistema di valutazione; la carenza di un corretto flusso di informazioni e comunicazioni; la puntuale verifica del fabbisogno dei cellulari servizio”. Cellulari chiesti da anni per non dover fornire il proprio numero a un’utenza anche problematica. Quanto al degrado citato al primo punto, ci sono centri per l’impiego dove piove dal soffitto e altri, come quello di Milano, che hanno subito allagamenti. “Abbiamo dovuto tamponare con i cartoni e nonostante i disagi hanno risolto mettendo dei sacchi davanti alle uscite di emergenza”, raccontano. E poi topi, scarafaggi, scarichi intasati. “Intanto rinunci ad andare in bagno perché ormai manca il tempo – raccontano -, anche di mangiare, e lo fai alla scrivania mentre il collega accanto parla con l’utente”. Che a volte perde la pazienza, magari perché gli hanno tolto il Reddito di cittadinanza o perché il portale non funziona. L’operatore non ha colpe, anzi perde arbitrariamente l’indennità concordata anche se il lavoro lo porta avanti. Ma è con lui che se la prendono quando tirano pugni alle scrivanie o spaccano il plexiglas dello sportello.

Tutto per uno stipendio che a Milano non ci vivi mentre il tuo datore parla di salari giusti. “Siamo arrivati allo stato di agitazione perché abbiamo assistito a un continuo scaricabarile tra il gestore, Afol, e il datore, Città metropolitana di Milano”. Chi riflette all’indomani dell’assemblea parla di totale assenza della politica, di assoluto disinteresse. “Non si può fare un servizio di qualità con 100 persone alla porta e 10 persone che devono fare tutto, compresa la parte amministrativa, le certificazioni che richiedono tempo. La possibilità di fare errori è alta e anche questo genera stress. Le persone in coda ti guardano, e se vedono lo sportello vuoto entrano e pretendono che qualcuno segua la loro pratica”. Se ne va anche chi non ha ancora terminato il semestre di prova e addirittura chi dovrà accettare un arretramento di carriera o uno stipendio più basso. Tra loro c’è chi era stato assunto come esperto del mercato del lavoro ed è finito a fare l’amministrativo per l’organico insufficiente. “Tra i funzionari assunti col potenziamento, quelli col profilo più alto, l’età media superava i 45 anni e le esperienze erano spesse: in grosse aziende, al personale, in società di selezione”, racconta chi si è dimesso l’anno scorso. “Due anni fa sono entrati 41 livelli D, oggi non ne rimangono più di 10: tre su quattro se ne sono andati, perché lì dentro la rassegnazione te la inculcavano”. Sarebbe questa la capitale economica?

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