Ana Cristina Cruz Cesar (1952-1983) ha 31 anni quando si lancia dal settimo piano della casa dei suoi, a Copacabana. La sua esperienza mortale però fu la scrittura, elemento di rottura (e insieme di sutura) con l’esperienza di vita. Uno dei suoi libri si intitola Corrispondenza completa. Corrispondenza fittizia, invenzione semantica, lettera della scrittrice verso sé. Ma la poesia non riuscì ad essere psicoterapia, anche se sembra far precipitare la vita sulla pagina, per questa professoressa universitaria e traduttrice (Mansfield e Plath, fra i molti). Raffinata, colta, maestra della lingua, fra i cosiddetti “marginali” degli anni 70 (ragazzi che stampavano i propri libri con il ciclostilato e li distribuivano dove e come potevano), Ana Cristina Cesar è forse l’esempio più intenso di una ricerca espressiva e stilistica in assoluta libertà.

M.D.

***

No, la poesia non può aspettare.

Il brigantino tocca le terre gelide dell’estremo sud.
Scappo sull’auto trainata.
Oggi – lo sai questo? Sai di oggi? Sai che quando
dico oggi, parlo precisamente di questo rude estremo,
di questo punto che sembra l’ultimo possibile?

La gola ne esce remota,
lontano da te credo appena di amarti,
attraverso il traffico e scivolo
che posto occupa questa voglia di frutta?

Questo è il primo foglio aperto.

*

Conto alla rovescia

Ho creduto che amando di nuovo
avrei scordato almeno
gli altri tre o quattro volti che ho amato

In un delirio di archiviazione
ho organizzato la memoria in alfabeti
come chi conta le pecore e si calma
e intanto col fianco aperto non scordo
e amo in te gli altri volti

*

Ho un foglio bianco
e pulito che mi attende:
invito muto

ho un letto bianco
e pulito che mi attende:
invito muto

ho una vita bianca
e pulita che mi attende

*

è molto chiaro
l’amore
ha bussato
per restare
su questa veranda scoperta
nell’imbrunire sopra la città
in costruzione
sulla piccola costrizione
nel tuo petto
ansia di felicità
luci di automobili
rigano il tempo
le opere di cantiere
a riposo
arretro immediato della trama

*

Scintilla

Ho aperto curiosa
il cielo.
Così, scostando leggermente le tende.
Volevo ridere, piangere,
o almeno sorridere
con la stessa leggerezza con cui
mi baciava l’aria.
Volevo entrare,
cuore dopo cuore,
intera,
o almeno muovermi un poco,
con quella parsimonia che caratterizzava
le agitazioni che mi chiamavano.
Addirittura volevo
saper vedere,
e in un movimento rotondo
come le onde
che mi circondavano, invisibili,
abbracciare con le retine
ogni piccolo pezzo di materia viva.
Io volevo
(solo)
percepire l’impercepibile
nel leggerissimo che sorvolava.
Io volevo
prendere una manciata
dell’infinito in luce che a me si mescolava.
Io volevo
captare l’impercepito
negli attimi minimi dello spazio
nudo e pieno.
Io volevo
almeno mantenere aperte le tende
nell’impossibilità di toccarle.
Io non sapevo
che il rovescio della medaglia
era un’esperienza mortale.

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