di Leonardo Botta
Nel paese in cui il presidente del Senato Ignazio La Russa (per intenderci, la seconda carica dello Stato) riscrive la storia ‘narrando’ dell’attentato di via Rasella come di un attacco a una “banda musicale di semi-pensionati altoatesini”, e nessuno (nessuno!) della sua parte politica ritiene necessario stigmatizzare una farneticazione del genere, siamo qui a ricordare l’ottantesimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine che costituì l’efferata azione di rappresaglia dei nazisti contro quell’attentato.
Trentatré soldati della polizia tedesca furono uccisi in via Rasella dai Gruppi di Azione Patriottica; 330 italiani (10 per ogni soldato caduto nell’agguato), poi arrotondati a 335 (“ma sì, abbondiamo”, avrebbe detto Totò) furono rastrellati dai nazisti con l’accondiscendenza dei fascisti e, sotto l’attenta supervisione di Kappler e Priebke, condotti nelle fosse pozzolaniche di via Ardeatina dove furono ammassati come bestiame da mandria e freddati uno per uno con un solo colpo dalla nuca, perché secondo i gerarchi non andava sprecata nemmeno una pallottola.
L’anno scorso Meloni ricordò quei “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani” (così disse). Vero: peccato che la presidente del Consiglio omettesse un piccolo, insignificante dettaglio: tra quei 335 poveri cristi c’erano ebrei (almeno 75), detenuti politici, comunisti, socialisti, azionisti, partigiani di varie estrazioni politiche, ragazzi poco più che adolescenti, intere famiglie e persino un prete (don Pietro Pappagallo), tutti accomunati da una caratteristica: erano antifascisti e, in quanto tali, esseri da annientare per soddisfare la furia vendicativa di Hitler.
Ignazio La Russa, dio lo perdoni, quando straparlava dell’attentato di via Rasella affermava convintamente che quella non fosse stata una pagina nobile della resistenza partigiana. Il meschino dimenticava che furono proprio atti di resistenza come quello a ridare un briciolo di dignità a un popolo che in buona parte, per vent’anni, aveva digerito tutte le fetenzie commesse da Mussolini e i suoi sodali.
Furono azioni di resistenza come quella di via Rasella a suscitare la stizza dei più autorevoli vertici di SS, Gestapo e Wermacht: come ha ricordato lo storico Alessandro Barbero, Kappler riconobbe, nel processo per le Fosse Ardeatine, che “la Resistenza nella città di Roma nacque subito e fu attivissima e violentissima; c’erano sparatorie o esplosioni quasi ogni giorno; nel Tevere spesso venivano ritrovati cadaveri di soldati tedeschi”.
Secondo Dollmann, “Roma è stata la capitale che ci ha dato più filo da torcere”. E Kesselring ebbe a dire: “Roma era diventata per noi una città esplosiva. Era diventata un problema, tra l’altro ne risentiva anche il morale delle truppe combattenti perché i tedeschi non potevano più mandare a Roma i soldati per un periodo di riposo o di licenza”.
E furono quelle azioni a consentire ad Alcide De Gasperi di rivendicare il pur compromesso orgoglio italiano alla Conferenza di Pace di Parigi, in un appassionato e fiero discorso rivolto ai vincitori del conflitto, il cui incipit era “…sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me…”. Ma tutto questo forse La Russa non lo sa: era troppo impegnato a lucidare i busti del duce per trovare il tempo di studiarlo nei libri di storia.