“Petko sospirò di gioia. Il silenzio notturno lo turbava. A un tratto si sentì triste e chissà perché desiderò essere un albero, non un albero giovane, spensierato, ma uno dal tronco possente, piegato dai venti del nord, con rami-braccia e radici-ricordi nascoste nelle profondità della terra. Nel cuore della notte, con l’anima sofferente, avrebbe frusciato dolcemente per non inquietare gli altri con il suo triste canto e nessuno si sarebbe accorto che non era un albero, ma un vecchio solitario.”
Muschio bianco, di Anna Nerkagi (traduzione di Nadia Cigognini; Utopia Editore), è una testimonianza narrativa delle tradizioni della Siberia. Nata nel 1952 presso il popolo dei nenec, l’autrice fu costretta, dalle autorità sovietiche, a crescere in un collegio, lontana dalla sua comunità. Ed è questa la tematica, attraverso un processo di verosimiglianza, che si ritrova nel romanzo. Il giovane Alëška è da sempre innamorato di Ilne, ma la ragazza ha ormai lasciato da anni il loro accampamento d’origine, isolato dal resto del mondo, nella tundra, per trasferirsi in città.
Il libro è un inno del popolo nenec, del loro rapporto con la natura e del loro confronto con la società moderna. Alëška, divenuto uomo, è costretto dalla madre a sposarsi, ma continua, segretamente, a covare il suo amore per Ilne, aspetto che lo rende sempre più introspettivo e isolato e che fa risaltare la spaccatura generazionale nella comunità nenec. Una scrittura intensa ed emozionate, quella di Anna Nerkagi, capace di dilatare i concetti di amore, cambiamento, immobilismo fino a fargli riempire gli sconfinati spazi della tundra innevata.
“Chi e che cosa fosse Stevan Karajan si può dire in due parole. Era venuto a Belgrado da qualche località a nord della Sava nel 1920 come modesto impiegato di banca. Per due o tre anni aveva lavorato con costanza e dedizione, servizievole e paziente, ma freddo come lo sportello di vetro dietro al quale era seduto. Le cose erano andate così, finché l’ondata di facile arricchimento non aveva sollevato anche lui come tanti altri, rendendolo un uomo d’affari e un padrone di casa sicuro di sé.”
Il caso di Stevan Karajan, di Ivo Andrić (traduzione di Alice Parmeggiani, postfazione di Božidar Stanišić; Bottega Errante Edizioni), è una straordinaria raccolta di racconti che investiga, attraverso le singole vite dei protagonisti, il tema dell’ingiustizia nel confronto costante con la psiche degli attori narrativi coinvolti. Il volume è composto da dieci storie inedite ambientate nel Novecento che vedono muoversi donne testarde, pensatori silenziosi, servi ribelli, contemplativi imprenditori post-bellici. Utilizzando l’inconfondibile stile (basato sulla tradizione del racconto orale), che ha reso grande lo scrittore jugoslavo – dialoghi brevi, descrizioni essenziali delle persone e della natura –, i racconti si snodano in un micromondo affascinante, delicato e implacabile. Un micromondo di introspezione psicologica e drammi interiori, dove spesso l’immagine femminile diventa il fulcro su cui ruota intorno l’intero racconto. Un volume che tratteggia i migliori aspetti della letteratura di Ivo Andrić.
“Sgattaiolò oltre la strada, passando davanti alla stazione centrale. Gli alberi nel piccolo parco al centro della piazza davanti all’edificio brillavano di un verde timido. Come poteva essere piacevole una giornata come quella, quando si era in attesa dell’amato! I piedi trovarono da sé la strada, erano leggeri e svelti. Era spezzata la maglia di ferro che le stringeva il petto nei giorni di solitudine, quei giorni in cui l’amore pulsava nelle sue vene come piombo incandescente e non trovava alcuna valvola di sfogo per lasciare quel corpo fragile.”
Gli innamorati di piazza Oberdan, di Christian Klinger (traduzione di Federico Scarpin; Bottega Errante Edizioni), è una toccante saga familiare ambientata a Trieste che conduce il lettore dagli ultimi giorni dell’Impero Asburgico alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e che racconta una tragica storia d’amore. L’autore austriaco intreccia abilmente fatti reali e finzione in un romanzo avvincente che fa rivivere, in una cornice ambientale che è crocevia di culture, un periodo cupo e intenso della Storia contemporanea.
Il 6 aprile 1945 Pino Robusti, studente di Architettura, viene fucilato alla Risiera di San Sabba, unico lager di sterminio d’Italia. Fuori, ad aspettarlo e a chiederne la grazia, ci sono il padre Vittorio e la fidanzata Laura. Vittorio è un sopravvissuto della Prima Guerra Mondiale diventato avvocato e che, nell’Italia fascista, aiuta ebrei e sloveni a raccogliere fondi per emigrare. Pino è innamorato di Laura, il loro punto d’incontro è piazza Oberdan, ma Pino entra in contatto con i partigiani, cosa che lo mette nel mirino della Gestapo, già insospettita nei confronti del padre. Un romanzo che ricostruisce la storia vera di Pino (attraverso le lettere originali che scrisse in cella alla fidanzata e ai genitori, e dalle testimonianze di chi conobbe i due innamorati), e della sua famiglia, attraverso un percorso storico e umano originale.