Credo che pochi ricordino i Buggles, ma chi ha iniziato a guardare Mtv nel 1981 non può non ricordare la loro hit Video killed the radio stars dove si preannuncia la morte della radio, uccisa dai video musicali: la musica non si ascolta più, si guarda. Poi c’è stata la morte dei vinili, delle musicassette e ora dei compact disc, visto che la musica si ascolta dai file.
La televisione ha ucciso il cinema, con la chiusura dei cinema di quartiere, amalgamati in enormi multisala, di solito periferici. Le serie e i megaschermi casalinghi stanno dando il colpo di grazia al cinema. Stessa sorte per i negozi di quartiere, uccisi prima dai supermercati e ora dalle consegne a domicilio da ordini in rete. Stanno scomparendo le librerie, visto che i libri si ordinano in rete e arrivano istantaneamente, se si scaricano in formato elettronico. Non parliamo delle edicole.
Sono le scelte dei consumatori a decidere o meno il successo di queste “transizioni”. Se si ordina in rete e non si compra nel negozio sotto casa, il negozio sotto casa chiude. Stiamo diventando come gli Stati Uniti dove, con limitate eccezioni, le città sono state progettate per il movimento in auto e nessuno passeggia per la strada. Dato che passeggiare è bello, magari fermandosi in un baretto a bere un caffè, gli statunitensi hanno inventato i centri commerciali, i mall. Il primo che ho visitato, sempre negli anni Ottanta a Chicago, aveva i negozi, i baretti, persino una piazza con fontana. Solo che era tutto finto, in un grande capannone con aria condizionata, come nel Truman Show. Non a caso i Blues Brothers distruggono proprio un centro commerciale nei dintorni di Chicago: un gesto simbolico.
Poco dopo anche noi abbiamo iniziato a costruire i centri commerciali. Con un piccolo dettaglio: noi abbiamo la versione reale di quel che in Usa si ricostruisce in modo artificiale, e la distruggiamo per realizzare una replica fasulla. Un disperato potrebbe trovare gratificazione sessuale in una bambola di gomma, ma come chiamereste chi si trastulli con una bambola di gomma, avendo come fidanzata o moglie, che so, Margot Robbie? O, per par condicio di genere, come chiamereste chi, avendo a disposizione Rocco, l’idraulico che dice “buonasera…”, si soddisfacesse con un vibratore? Ecco, è quello che stiamo facendo alle nostre città.
Negli anni Sessanta, la speculazione edilizia ha portato alla costruzione di quartieri-dormitorio in cui si tornava giusto per dormire. Posti senza negozi e senza offerte culturali. Ora molti centri storici si stanno svuotando di vita vera, per essere riempiti di negozi di paccottiglia per turisti, compresi i ristoranti, uno dietro l’altro, e di locali dove vivere la cosiddetta movida. A Barcellona, dove l’hanno inventata, comunque, c’è un magnifico mercato coperto, proprio sulle ramblas, dove si vendono cose “vere” a gente “vera”. Nelle Ztl prima vivevano gli appartenenti a ceti sociali “bassi”, poi i “nativi” sono stati deportati in periferia, nelle case nuove, costruite dove non c’è nessuno stimolo sociale e culturale: niente. I ricchi che hanno preso il loro posto, disturbati dalla movida, ora si spostano nelle vecchie masserie di campagna, abbandonate per l’inurbamento dei contadini.
Il tessuto commerciale delle nostre città si sta sfilacciando, perdiamo identità e ci stiamo omologando a realtà che, non avendo la nostra storia, sono nate con altri presupposti. Se devo dirla tutta, però, io abito in una “riserva indiana”: Mergellina, a Napoli. Esco di casa e, a pochi metri, c’è il mercato della Torretta. Prima mi fermo all’edicola, a discutere dei massimi sistemi con il giornalaio, poi c’è il negozio che vende mozzarelle di bufala stratosferiche, e diversi ortofrutta, il forno, dove si discute di cosa fa il Napoli, ottimi bar, una pasticceria – non parliamo delle pizzerie e dei ristoranti a due passi da casa. Ci sono anche un laboratorio di analisi, un barbiere, un parrucchiere, una pescheria. Subito sotto, uscito dal portone, un negozio di elettricista della mia vicina di casa, di fronte il ferramenta e la lavanderia. La città a un quarto d’ora (quella dove tutto si raggiunge in un quarto d’ora a piedi) mi fa un baffo: la mia è a tre minuti. Sono a un quarto d’ora i tre cinema più vicini, e validi negozi di abbigliamento. Nella mia “rete” commerciale ci sono persone, facce che conosco e che mi conoscono.
Mi sposto in altre città e non trovo la stessa realtà. Non si può fermare il progresso. Anche se le cose che buttiamo via potrebbero avere valore, per altri. Negli anni Sessanta i contadini si liberavano dei tavoli di noce in cambio di tavoli con copertura in formica, belli lucenti. Gli antiquari li turlupinavano come facevano gli europei che davano perline agli indigeni in cambio di pepite. Oltre a non capire l’importanza di un tessuto urbano vivo, inoltre, non capiamo neppure l’importanza dei siti dove non ci sono tracce delle nostre deturpazioni.
Recentemente ho sentito una senatrice – non scherzo – che, riferendosi ad un sito compreso nelle zone di reperimento per aree protette, si lamentava che fosse lasciato in balia della natura. La natura va “valorizzata” e deve “rendere”, magari attrezzandola opportunamente con alberghi sulla spiaggia, darsene, villette e strade a scorrimento veloce, magari costruendo finti villaggi di pescatori. Il tutto abitato per due mesi all’anno da quanta più gente possibile. Chi può, con la sua barca, può veleggiare tra le isolette greche, dove con sorpresa può accorgersi che il fatto che lì non ci sia niente ha un valore enorme.