C’era una volta il bispensiero orwelliano con cui si indottrinavano le masse raggirandole attraverso grossolani espedienti semantici: la guerra è pace, l’ignoranza è forza, la libertà è schiavitù. Ai giorni nostri la disinformazione al servizio del potere autocratico ha scoperto un metodo più efficace per manipolare le menti labili sfruttando il loro scarso raziocinio: usare lo stesso termine per indicare due situazioni o due concetti del tutto diversi, anzi completamente antitetici.

Un macroscopico esempio, sotto gli occhi di tutti in questi tragici frangenti, è il sostantivo elezione che al plurale, come recita il dizionario Treccani, indica la “designazione mediante voto delle persone chiamate a rappresentare una collettività (cioè a manifestare una volontà e a svolgere un’attività che sono giuridicamente considerate come proprie della collettività stessa) o a ricoprire determinati uffici”. La genericità della definizione offre ampio spazio agli imbonitori, o, per usare la definizione più appropriata coniata da Mario Draghi, ai pupazzi prezzolati. Imbeccati dal coro dei bot russi sui social o direttamente dalla macchina della propaganda putiniana, i pupazzi definiscono “elezioni” l’obbrobrio volto a “certificare” il “consenso” di cui gode il regime.

Con gente indotta, o costretta, ad affollare i seggi per evitare le ritorsioni degli sgherri contro chi rifiuta di partecipare. Una volta entrati nella cabina gli “elettori” si trovano a dover scegliere tra un autocrate e tre nullità prestatesi alla pagliacciata. D’altro canto, i candidati con qualche, sia pur remota, possibilità di infastidire la dittatura sono stati eliminati fisicamente o esclusi dalla scheda con un pretesto qualsiasi. Di conseguenza, la campagna elettorale consiste nell’ossessivo incensamento del despota su tutti i media oltre che in tutti i luoghi di lavoro, di ritrovo e di svago.

Quando i tre giorni di ludi cartacei terminano, i tirapiedi tirano le somme, peraltro preordinate mesi addietro, e i ciambellani del regime annunciano in estasi alle masse che l’autocrate è stato “eletto” con percentuali da capogiro etilico (non a caso definite bulgare, in onore del consenso che i vassalli comunisti tributavano all’Unione Sovietica).

Questa grottesca presa per i fondelli sdruciti, su scala bi-continentale, nella mente degli imboniti, sarebbe identica alle elezioni (senza virgolette) che si svolgono nelle società aperte per selezionare i vertici delle istituzioni nazionali e locali. Cioè un processo gestito da funzionari, controllato da rappresentanti di seggio, validato dalla magistratura indipendente, attraverso cui gli elettori scelgono tra più candidati, nessuno dei quali rischia di finire in un gulag o steso sul marciapiede con una pallottola di piombo conficcata nel cranio. Viene data a tutti la possibilità di scelta (per quanto imperfetta) tra programmi (o proclami) alternativi, illustrati su media non soggetti a censura, dibattuti in luoghi ed eventi liberi da interferenze della polizia (o dei servizi segreti), sostenuti da attivisti senza timore di volare da una finestra lasciata aperta nell’inverno moscovita.

Invece a detto degli squinternati, il “popolo russo” avrebbe espresso entusiasticamente, dal Donbas a Vladivostok, il proprio consenso per un cleptocrate, i suoi oligarchi, i suoi sicari, le sue gang, le sue zacharove di cui è infestata quella sterminata landa che dagli Zar a Putin, passando per i comunisti sovietici, non ha mai respirato un refolo di libertà. Golos, l’unica organizzazione indipendente che monitorava le elezioni in Russia, è stata perseguitata con l’accusa di essere un “agente straniero”. Il suo co-fondatore è finito in galera tanto per non lasciare adito a dubbi per chi volesse disturbare la ridicola acclamazione con cui l’ex colonello di mezza tacca del KGB pensa di legittimare periodicamente il suo dominio all’interno e all’esterno.

Ma il servo encomio, per quanto inebriante, cela le insidie che si insinuano subdole nei meandri oscuri del Potere. I cortigiani che affettano deferenza in pubblico, coltivano il disprezzo in privato. Dietro ogni Lavrov, Medvedev, Zacharova si stagliano le ombre e i fantasmi talora sordidi dei Prigozhin, talora eroici dei Navalny. E quando in una sera di inizio primavera un gruppo di sterminatori in mimetica venuti dal nulla compiono un massacro tanto inaspettato quanto atroce, la maschera tronfia del Potere si lacera nel disprezzo di chi un minuto prima inneggiava agli abiti dell’autocrate scopertosi nudo di fronte all’imponderabile.

Il bispensiero, le manipolazioni, le menzogne, l’indottrinamento, il patriottismo, la crudeltà dei gerarchi, la corruzione dei sodali, la mistica della Terza Roma, l’esaltazione del Capo si liquefano nella piena impetuosa della Realtà che rompe gli argini e travolge la hybris. Il fiume della Storia, gonfiato dalla maledizione eterna delle vittime (dalla Cecenia all’Ucraina, passando per la Siria), non lascia in sospeso i lerci debiti contratti col Maligno, oscenamente addobbato con paramenti della Chiesa Ortodossa.

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