Insufficienza di prove. Se fosse un processo penale celebrato col vecchio rito sarebbe questa la motivazione che ha portato il giudice sportivo della Serie A ad assolvere Francesco Acerbi dall’accusa di aver rivolto insulti razzisti a Juan Jesus. La storia è nota: durante la partita Inter-Napoli, il difensore della squadra partenopea aveva accusato il nerazzurro di avergli rivolgo insulti razzisti. L’arbitro Federico La Penna aveva interrotto il gioco per circa un minuto e mezzo e i due calciatori si erano in qualche modo chiariti. Dopo la partita, però, Acerbi aveva negato la natura razzista degli insulti rivolti a Juan Jesus. Il difensore del Napoli, invece, aveva confermato totalmente le sue accuse.
Ora nelle sue motivazioni, il giudice sportivo Gerardo Mastrandrea spiega che “la sequenza dei fatti in campo, ricostruita in base ai documenti ufficiali, con l’ausilio del direttore di gara e comunque visibile in video” è “sicuramente compatibile con l’espressione di offese rivolte, peraltro non platealmente (con modalità tali cioè da non essere percepite dagli altri calciatori in campo, dagli Ufficiali di gara o dai rappresentanti della Procura a bordo del recinto di giuoco), dal calciatore interista, e non disconosciute nel loro tenore offensivo e minaccioso dal medesimo ‘offendente’, il cui contenuto discriminatorio però, senza che per questo venga messa in discussione la buona fede del calciatore della soc. Napoli, risulta essere stato percepito dal solo calciatore ‘offeso’ (Juan Jesus), senza dunque il supporto di alcun riscontro probatorio esterno, che sia audio, video e finanche testimoniale”. Significa che gli insulti razzisti sono stati uditi solo dal calciatore brasiliano: non esistono altri tipi di riscontri e dunque l’interista va assolto.
Mastrandrea rileva inoltre la necessità che “l’irrogazione di sanzioni così gravose” come quelle previste nei casi di razzismo “sia corrispondentemente assistita da un benché minimo corredo probatorio, o quanto meno da indizi gravi, precisi e concordanti in modo da raggiungere al riguardo una ragionevole certezza”. Pur riconoscendo che il caso “è teoricamente compatibile anche con una diversa ricostruzione dei fatti, essendo raggiunta sicuramente la prova dell’offesa ma rimanendo il contenuto gravemente discriminatorio confinato alle parole del soggetto offeso”. Il giudice sportivo ha quindi stabilito che “non si raggiunge nella fattispecie il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto sicuramente discriminatorio dell’offesa recata”.