Il 20 marzo Vo Van Thuong, 53 anni, è diventato il secondo presidente vietnamita a dare le dimissioni nell’arco di appena due anni. Le sue “mancanze hanno avuto un impatto negativo sull’opinione pubblica, influenzando la reputazione del Partito e dello Stato”, ha fatto sapere il Comitato centrale del Pcv, che ne ha chiesto la rimozione. Per chi conosce bene la tradizione marxista-leninista, la formula vuole dire quasi certamente una cosa: il prepensionamento di Thuong – ad appena un anno dalla nomina – ha tutta l’aria di inserirsi nella lunga scia di destituzioni per presunta corruzione. Tanto più che solo pochi giorni prima la polizia aveva riaperto un caso di tangenti avvenuto nella provincia di Quang Ngai, nel Vietnam centrale, dove dieci anni fa il presidente dimissionario aveva prestato servizio come capo del Partito locale.

Con funzioni prettamente cerimoniali, in Vietnam, il presidente viene considerato il numero due nell’organigramma del potere. Il braccio destro del segretario generale del Partito comunista vietnamita (Pcv), il vero lider maximo. Ma quel ruolo, per quanto perlopiù simbolico, può incidere sugli equilibri interni del paese asiatico e sul suo futuro economico. Soprattutto se rischia di diventare la pedina di una partita a scacchi tra potenti.

Non è così scontato che a rotolare stavolta sia la testa di Thuong. Se non altro per la sua nota vicinanza al segretario generale del Pcv, Nguyen Phu Trong. Considerato l’uomo più potente del Vietnam, Trong è l’artefice della cosiddetta “fornace ardente”, la campagna anticorruzione lanciata nel 2016 per eliminare le “mele marce”, rinsaldare la legittimità della classe politica e il suo compito di guida morale del paese. Un’operazione motivata da preoccupazioni oggettive. Ma che, avendo colpito circa duecentomila membri del Pcv, è stata contestualmente strumentalizzata dal suo ideatore per mantenere saldo il potere.

“Mela marcia” o inaspettato rivale? Difficile dire se Thuong sia l’uno o l’altro. C’è chi propende per ritenerlo piuttosto la vittima di una resa dei conti interna. Scenario che lascerebbe intendere un possibile indebolimento del segretario generale e l’inizio di nuove lotte intestine. Per ora tutto sembra procedere normalmente. Come previsto dalla costituzione, la vicepresidente Vo Thi Anh Xuan è subentrata ad interim nell’attesa di nuove elezioni. Ma è innegabile che le dimissioni di Thuon – fino a poco tempo fa in corsa per assumere la guida del Pcv nel 2026 – rispecchiano la crescente volatilità della situazione politica interna; la fine di un periodo di continuità che nel recente passato ha permesso al Vietnam di mantenere tassi di crescita tra i più alti d’Asia.

Il terremoto politico è cominciato nel 2018 con la morte improvvisa dell’allora presidente Tran Dai Quang all’età di 61 anni. Poi è stato il turno di Nguyen Xuan Phuc, costretto a ritirarsi nel 2023 per “violazioni e illeciti” a meno di due anni dall’assunzione dell’incarico. Coinvolto in un episodio corruttivo, si ritiene che a metterlo fuori gioco sia stata in realtà l’appartenenza a una corrente più riformatrice del Pcv, opposta a quella di Trong. Non è chiaro se le contorsioni politiche avranno ripercussioni più ampie. Signore indiscusso del protocollo, il presidente ricopre un ruolo non marginale nella gestione dei rapporti con gli omologhi stranieri. Proprio a Thuon vanno attribuiti recenti progressi nella “diplomazia del bambù”, l’equilibrismo che negli ultimi mesi ha visto Hanoi rinsaldare i rapporti tanto con la Cina quanto con gli Stati Uniti. E sebbene gli affari economici competano al premier, la crescente instabilità interna non rappresenta esattamente un buon biglietto da visita per attrarre nuovi investimenti internazionali. Il tutto in una fase complessivamente favorevole per il Vietnam.

Già ritenuto da alcuni anni un’alternativa più economica alla Cina, il paese del Sud-Est asiatico ha ulteriormente beneficiato dei crescenti attriti commerciali tra Pechino e Washington, diventando meta prediletta delle aziende intenzionate a smarcarsi dalle tariffe incrociate tra le due superpotenze. Non solo quelle cinesi. Samsung spedisce dal Vietnam metà dei suoi smartphone, mentre lo scorso anno Apple ci ha delocalizzato la produzione degli iPad. Ora che la guerra commerciale coinvolge anche i chip, le prospettive sono persino più interessanti. Incoraggiato dall’amministrazione Biden, a dicembre il colosso americano Nvidia ha annunciato di voler rafforzare ulteriormente la propria presenza in Vietnam, costruendo una grande base produttiva di semiconduttori.

E ora? Secondo gli analisti, le dimissioni forzate di Thuong rischiano di provocare una paralisi burocratica. La stretta dell’anti-corruzione ha reso i funzionari vietnamiti particolarmente cauti nell’approvare nuovi progetti per paura di essere indagati per presunte irregolarità. Il rilascio di licenze e altri permessi avviene col contagocce. Stando allo Strait Times, nei primi nove mesi del 2023 l’erogazione di investimenti pubblici ha raggiunto solo il 51% dell’importo pianificato. Insomma, con la “fornace ardente” di Trong il Vietnam rischia di bruciarsi il futuro.

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