di Fiore Isabella
“Bisogna mettere un tetto di alunni stranieri in ogni classe, per tutelare loro e per tutela anche di tutti gli altri bambini”. La pensa così Matteo Salvini. La paura dell’invasore si trasferisce nelle aule scolastiche, dove l’improvvisato pedagogista studia come bloccare l’eccessiva presenza di bambini stranieri nelle nostre scuole.
Continuando nella sua ardita riflessione il geniale pensatore si pone una domanda, legittima per gli esperti di metodologie didattiche ma azzardata per il ministro dei trasporti: “Quando gli italiani sono il 20% dei bambini in classe, come fa una maestra a spiegare?”. A completamento della sua disamina, intervenendo sulla delibera del Consiglio d’Istituto della scuola di Pioltello di concedere, nel rispetto della vigente legislazione scolastica il 10 aprile di festa per la fine del Ramadan, l’ex ministro dell’interno così si esprime: “È un segnale di cedimento e arretramento chiudere per il Ramadan”.
Paulo Freire diceva che “nessuno si educa da solo. Ci educhiamo gli uni gli altri, mediati dal mondo“. E in una scuola multiculturale si realizza il sogno di crescere insieme in un luogo, l’aula scolastica, dove il mondo si incontra per affermare, nell’irripetibilità di ogni essere umano, il miracolo della convivenza e del reciproco rispetto. Come spiegare a certa politica, che non indossa la camicia per non urtare il fondoschiena, che i bambini che vanno nelle nostre scuole possono essere destinatari di didattiche inclusive che non hanno paura dei numeri e il maestro che conosce le metodologie didattiche collaborative (Cooperative learning) è in grado di rendere il bambino protagonista e non fruitore passivo dei percorsi di apprendimento? Un metodo di insegnamento, l’apprendimento cooperativo, mediante il quale anche 30 alunni possono assimilare le nozioni in maniera più interattiva e lavorando insieme.
Ma come si può chiedere al pedagogista e stratega didattico Matteo Salvini di andare a Praia de Calhetas a risciacquare i suoi poveri cenci? Indurlo, con le buone maniere, a leggere “La pedagogia degli oppressi” temo che farebbe troppa fatica: e poi, se si astenesse dal farlo, eviteremmo a Paulo Freire di rivoltarsi nella tomba.