Pare che le opere di Samuel Beckett (premio Nobel per la letteratura nel 1969) siano quasi sparite dalle librerie. Non mi stupisce più di tanto. Fra i grandi autori del Novecento, lo scrittore irlandese (di cui si riparla in queste settimane per un film sulla sua vita, Prima danza, poi pensa, di James Marsh) è sicuramente uno dei più citati e dei meno letti, forse in compagnia di Proust e Joyce, non a caso a lui molto cari, soprattutto il secondo, di cui fu adepto e collaboratore.

Il fatto è che su di lui pesa sfavorevolmente la fama di scrittore “difficile”, per giunta portatore di una visione desolata e cupa dell’esistenza. Ora, Beckett sarà anche, a volte, uno scrittore “difficile” ma tutto è fuorché serioso o cupo. Al contrario, con lui si ride molto, nonostante tutto, e non risulta affatto esagerata l’affermazione che Gianni Celati fece tanti anni fa, in un saggio ormai classico (Finzioni occidentali, Einaudi, 1975): “val la pena di sottolineare la gamma dei gags beckettiani, che costituiscono la più avanzata ricerca letteraria nel campo del comico dell’epoca moderna”.

Per quanto disperata appaia in effetti – ai suoi occhi – la condizione umana, per il semplice fatto di essere stati gettati nella vita (“Ma riflettete, ormai siete al mondo, non c’è rimedio!”, Hamm in Finale di partita), Beckett evita accuratamente di buttarla sul tragico, consapevole che (come sostiene nella stessa pièce) “non c’è niente di più comico dell’infelicità” e che – qui è la straordinaria protagonista di Giorni felici a parlare, mentre ride insieme al consorte – “Non c’è miglior modo per glorificare l’Onnipotente che ridacchiare con lui dei suoi scherzetti, specialmente quelli meno riusciti”.

I personaggi di Beckett, molto prima di approdare alla scena, sono già degli autentici performer comici, virtuosi di uno strambo funambolismo verbale e gestuale da music-hall o da comica cinematografica (di cui egli era notoriamente un appassionato). Da questo punto di vista, Murphy, Molloy, Malone, Moran, i “protagonisti” dei suoi romanzi, appartengono alla stessa famiglia di Vladimiro ed Estragone, Hamm e Clov, Krapp, Winnie e Willie. Con la ossessiva interpolazione dei loro gag (verbali soprattutto, ma anche di situazione e di immagine), essi si mostrano incessantemente impegnati nella conversione “dell’atto del narrare nell’atto del recitare, attirando l’attenzione sull’interprete più che sulla vicenda”.

Ad osservarlo è ancora Celati, che così conclude: “Attraverso l’uso intensivo di questo schema la prosa beckettiana si trasforma in un gioco funambolico di parole sostituibili, ma tutte presenti, che si contraddicono di continuo; e così il testo man mano che si produce si cancella senza lasciare residui di senso”.

Insomma, i meccanismi comici mutuati dallo spettacolo “basso”, slapstick comedy in testa, da Mack Sennett a Charlie Chaplin e Buster Keaton (quest’ultimo protagonista del suo unico film), servono a Beckett per far collassare la forma romanzo e le sue pretese referenziali, se non realistiche. E gli stessi meccanismi vengono da lui utilizzati pochi anni dopo per far implodere la forma dramma, dalle cui macerie nasceranno le pièces brevi dell’ultima produzione teatrale, autoironicamente definiti “dramaticules” (da Commedia a Catastrofe e oltre). Ma, a quel punto, anche le risorse del comico si saranno esaurite insieme al resto, e ci sarà sempre meno da ridere.

Uno dei pregi maggiori del Meridiano Mondadori (1800 pagine) su Beckett, uscito qualche mese fa, è quello di raccogliere gran parte dell’opera letteraria del grande autore disponendola in ordine cronologico, senza cioè ricorrere alle consuete ripartizioni di genere. In tal modo è possibile cogliere con chiarezza l’assoluta continuità esistente fra la produzione romanzesca e quella per il teatro (o per la radio e la televisione), all’insegna di una medesima demolizione delle convenzioni dei rispettivi generi.

Egli approda così al postnarrativo e al postdrammatico, fra l’altro sfruttando finché può tutte le risorse della risata. Perché la vita è già abbastanza tragica di suo per sentirci obbligati a prenderla anche troppo sul serio (Samuel Beckett, Romanzi, teatro e televisione, a cura e con un saggio introduttivo di Gabriele Frasca, Mondadori, 2023).

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