La fantascienza è solo nel luogo, perché di guerre così è attualmente pieno il mondo. La sfida di Alex Garland con il suo film Civil War è quella di cappottare la realtà. Lo aveva già fatto con l’ottimo, straniante Ex Machina, ora è recidivo con questo film, fingendo che uno dei tanti sanguinosi conflitti che attualmente infiammano Africa, Asia e Medioriente si svolga invece nel cosiddetto ‘bastione’ della democrazia occidentale, cioè negli Stati Uniti.
C’è qui in corso una cruenta guerra civile, quasi fossimo tornati alla fine del diciannovesimo secolo, illustrata da Garland senza risparmiarci nulla. Quasi come in uno dei tanti film del passato sul Vietnam, Civil War paga un tributo di memoria a Full Metal Jacket, a Platoon, a Good Morning Vietnam, naturalmente ad Apocalypse Now e – attenzione – non ha nulla da invidiare a nessuno di questi capolavori.
Kirsten Dunst è una fotoreporter di guerra cinica e apatica per quante ne ha viste nella sua vita. Si accompagna ai giornalisti interpretati da Wagner Moura (indimenticabile Pablo Escobar in Narcos) e da Stephen McKinley Henderson e soprattutto dalla giovane ma già navigata attrice Cailee Spaney (la ritroverete anche in Priscilla di Sofia Coppola), una ‘ragazzina’ che vuole diventare fotoreporter di guerra esattamente come la Dunst.
Sono molte le chicche registiche che ci regala Civil War: i fermi fotogramma di tutte le sconvolgenti immagini che vengono scattate dalle due donne, le riprese aeree impressionanti, la crudezza delle situazioni belliche che non potremmo mai immaginare in un paese ‘occidentale’. E’ proprio questo trasportare l’orrore assoluto nel mondo quotidiano di un America dai paesaggi meravigliosi la principale forza di Civil War. Il mondo perfetto, perfettamente devastato dalla insipienza distruttiva umana.
Non interessa esaminare le cause dell’abominio, Garland lo descrive quasi come un entomologo disseziona un calabrone, tirandone fuori le schifezze più turpi. L’assurdità della guerra è l’unico sentimento che pervade tutto il film, insieme alla cinica determinazione della giovane Spaney a ‘vendere’ la propria anima e la propria innocenza per diventare esattamente (anzi, forse peggiore) del suo mito, Dunst.
Un vezzo, in Civil War, il fatto che la ragazzina scatti sempre con una vecchia Nikon a pellicola, cosa che sembrerebbe assolutamente fuori luogo in una situazione limite come quella descritta, dove certo non esistono più laboratori di sviluppo e stampa, ma il regista risolve l’incongruenza analogica facendo sviluppare i negativi direttamente alla Spaney, tra acidi e bacinelle che si trascina con sé tra una sparatoria e l’altra.
Civil War non è un film con happy ending e questo è quanto di meno si possa dire per non anticipare qualcosa di essenziale. Tutto quello che si può ricordare è che orrore assoluto e crescita personale sono intimamente connessi e non è detto che questo sia un bene.