Martedì, dopo aver negato l’ipotesi per settimane, per la prima volta il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha ipotizzato di chiedere all’Europa l’invio di soldati. Sembra così aver concretizzato le famose parole del presidente francese Emmanuel Macron sull’invio di truppe Nato a Kiev. A cui si sono aggiunti col tempo i discorsi sull’economia di guerra evocata da Ursula von der Leyen e Charles Michel, o ancora Olaf Scholz e altri che parlano di “preparare gli animi degli europei alla guerra”. L’escalation verbale militarista non stupisce Romain Huët: “Il vocabolario della guerra è ormai onnipresente nel dibattito pubblico europeo”. Né vede novità nelle minacce che provengono da Mosca dopo l’attentato al Crocus City Hall di venerdì, con il Cremlino che cerca di accusare Kiev per l’attentato rivendicato dall’Isis. Antropologo all’Università di Rennes 2, Huët è specializzato in etnografia della violenza. Nel 2019 ha pubblicato un saggio sulle rivolte sociali contro l’ordine costituito, tra il 2012 e il 2018 ha seguito in varie occasioni i gruppi di combattenti in Siria, e ha fatto lo stesso in Ucraina dopo l’invasione russa. Il risultato di queste ricerche è raccolto nel libo La Guerre en tête, uscito per Presses Universitaires de France. Secondo Huët, questa diffusa familiarità con il linguaggio militarista è un effetto della politica della paura: “Siamo immersi in un clima ansiogeno che favorisce le svolte autoritarie e serve a prepararci a futuri conflitti”.
Professor Hüet, il discorso sulla possibilità di una nuova guerra in Europa è entrato stabilmente nello spazio del dibattito pubblico?
Non è una novità. Ancora prima dello scoppio della guerra in Ucraina, durante la pandemia i politici parlavano di “guerra al Covid” (Macron dichiarò “siamo in guerra”, ndr), è stata coniata l’espressione di “riarmo demografico” per società che invecchiano. Si è abbassata la soglia di tolleranza e di conseguenza è diminuita anche l’indignazione possibile contro la guerra. Il risultato è un’atmosfera che rende la guerra accettabile. È chiaro però che in Ucraina da due anni si combatte una guerra reale. La novità degli ultimi mesi, credo sia il fatto che i politici europei stanno tentando di risvegliare l’opinione pubblica per evitare una vittoria russa, che sembra sempre più probabile. E credo le parole di Kuleba confermino che anche gli ucraini cominciano a prendere coscienza che stanno perdendo terreno. Detto questo, non credo che la prospettiva di avere “stivali europei” sul terreno ucraino potrà mai concretizzarsi. E nutro dei dubbi sulle capacità reali della Francia o dell’Europa di arrivare a uno scontro militare diretto con la Russia.
Eppure, dopo l’attentato terroristico al Crocus City Hall di Mosca, e con il Cremlino e i servizi russi che dichiarano di avere prove del coinvolgimento ucraino, rischiamo di essere trascinati nel conflitto, non crede?
A me pare che l’attentato ai fini di Mosca non fornisca altro che una giustificazione supplementare della guerra che sta conducendo. Non vedo come possano aumentare l’intensità dell’offensiva sull’Ucraina. Visto che, ripeto, sul campo stanno guadagnando terreno. C’è anche da dire che la propaganda russa ha sempre provato a giustificare la guerra accusando Kiev di terrorismo contro i russi. Quanto alla minaccia atomica, viene evocata dall’inizio del conflitto, non mi sembra una novità.
Tornando agli appelli dei leader europei a “prepararsi alla guerra” fanno presa sulle persone? Ora si aggiunge il ritorno della minaccia di attentati su suolo europeo…
Non direi il discorso bellicista faccia presa, almeno a guardare i sondaggi. In Francia, la popolarità del discorso di Macron sull’invio di truppe Nato in Ucraina è molto bassa, nella maggior parte dei Paesi europei le persone non sono favorevoli a un’escalation della guerra. Ma le evoluzioni dell’opinione pubblica si misurano sul lungo periodo. E su questo piano è possibile che il senso comune finisca per accettare una nuova guerra. Per questo non credo molto all’ipotesi di un invio di truppe occidentali in Ucraina ora, ma penso che in futuro l’Europa potrà trovarsi coinvolta in altri conflitti. Quello che accade oggi è che la politica ruota tutta attorno alla paura: si attinge a piene mani al sentimento di angoscia. Questo vale anche per la minaccia del terrorismo, ma non dimentichiamoci che l’Isis è indebolita rispetto a dieci anni fa.
Quindi allo stadio catalogherebbe questi discorsi come retorica senza effetti diretti?
Se parliamo di guerra in Ucraina, la mia sensazione è che due eventi saranno davvero decisivi per la sorte del conflitto. Le elezioni europee, in parte, e poi le elezioni americane soprattutto. Credo che necessariamente stiamo andando verso un congelamento del conflitto ucraino, ma tutto lascia pensare che stiamo preparando conflitti maggiori. Penso a Taiwan e non solo. Almeno, la politica attuale, con questo ruotare attorno alla minaccia dell’aggressione, sembra tutta orientata in questa direzione. È un fatto.
Tutto questo parlare di guerra in Ue sembra andare in contrasto con l’idea originaria su cui si è costruita l’Europa come continente di pace…
Il fatto è che l’Europa si sta sgretolando come tutte le istituzioni nate dalle ceneri della seconda guerra mondiale. La mia impressione è che precisamente questa retorica sulla mobilitazione del blocco geopolitico occidentale nasca da un crescente sentimento di impotenza. Il blocco occidentale ha perso influenza, sorgono nuovi attori multipolari nel mondo, dalla Cina all’America Latina, e l’occidente fa fatica a mantenere la presa.
Alcuni paragonano la situazione attuale a quella immediatamente precedente alla Prima guerra mondiale, all’appannamento di giudizio che ha portato i leader europei a non accorgersi che le loro scelte stavano per scatenare un conflitto così lungo e sanguinoso. Come valuta questo parallelismo?
Io mi concentrerei sul fenomeno dell’avanzata del nazionalismo e del ritorno di politiche protezioniste e di chiusura rispetto al resto del mondo. La tendenza è abbastanza netta in Europa, dove i partiti della destra nazionalista ormai vincono ovunque. Voi italiani siete un esempio. Anche questo è un correlato del contesto di angoscia e paura che dominano la politica attuale. Attenzione, la paura su cui fanno leva i politici non è solo geopolitica. C’è la paura ecologica, la paura della fine del mondo. La paura rinnovata del terrorismo. Questa atmosfera è chiaramente favorevole alle svolte autoritarie, sicuramente non allo sviluppo democratico.
Nel suo libro racconta com’è percepita la guerra in Ucraina, e spiega che non è vissuta “solo come una tragedia”. Parla di un certo “piacere di vivere in una condizione destrutturata” da parte degli ucraini mobilitati nel conflitto. Pensa che anche nelle nostre società si stia diffondendo questo gusto per la dissoluzione delle istituzioni?
Non è la nostra condizione. È vero che viviamo in un clima di paura, ma la guerra ci tocca solo indirettamente. Quando si tratta di combattere davvero è chiaro che nella società e negli individui si produce una trasformazione, è obbligatorio riorganizzare. Oggi noi europei siamo come spettatori della storia, non viviamo la grande vertigine della guerra, che ho verificato lavorando sul campo in Ucraina o in Siria per il mio libro. Siamo solo immersi in un clima ansiogeno.
Vede alternative all’esacerbarsi di questo clima? Le voci e i movimenti pacifisti sono molto minoritari in Europa, le formazioni democratiche o della sinistra che in teoria potrebbero contrastare l’ondata nazionalista di cui parlava sono sempre più sbiadite. Insomma, sembra che abbiamo poche opzioni…
Sarei ben felice di avere un antidoto a questo clima. Posso dire che se vogliamo contrastare la tendenza in atto dovremmo porci continuamente la domanda di come mantenere aperte le nostre società, di come evitare le chiusure e il diffondersi della paura. Mi ispiro ad Hannah Arendt, che vedeva il declino dell’umanità nell’assenza di comunicazione sociale. Nessuno riesce più a parlarsi. Ecco, forse il dialogo potrebbe essere un terreno su cui investire. Voglio dire anche, però, che trovo piuttosto ingenui gli appelli alla pace e alla diplomazia, riguardo al conflitto in Ucraina: partirei dal presupposto che la Russia non vuole trattare perché pensa di vincere. Per quanto riguarda l’Europa, il futuro come dicevo dipenderà molto da chi vincerà le presidenziali negli Stati Uniti.