Nel 2020, con già sette match vinti in carriera, il pugile italiano Matteo Papa prova ad entrare alla Mayweather Boxing Club di Las Vegas. Viene sbattuto fuori dalla palestra senza troppi complimenti perché quel giorno ad allenarsi c’era il campione del mondo Gervonta Davis, uno degli atleti più forti in assoluto nella boxe attuale.
Matteo non è un ragazzo che demorde, ha lasciato la sua Varese a diciannove anni dopo aver fatto il dilettante per cercare fortuna all’estero dentro ad un ring. L’indomani torna in palestra, lo lasciano in anticamera ad aspettare per ore. Poi non solo lo fanno allenare, gli chiedono di fare sparring con Davis che deve preparare la difesa del titolo. Non prima però che a bordo ring arrivi Floyd Mayweather Jr, una delle stelle più luminose del recente passato del pugilato mondiale. La palestra infatti è sua. A fine della seduta Floyd avvicina Matteo e gli dice quattro parole che il ragazzo italiano, classe 1992, non dimenticherà mai: “Ora puoi allenarti qui”. Papa un giorno farà cinque round di sparring anche con lo stesso Mayweather, ritirato da qualche anno ma ancora in splendida forma. Da allora viene messo sotto contratto con la Mayweather Promotion, significa che fino al 2027 è stipendiato ed in regola con il visto americano e potrà così stare almeno fino a quel giorno negli States.
Dopo una sessantina di match da dilettanti se n’era andato fuori dall’Italia: Londra, New York, Messico, Miami, Las Vegas. “Lavoricchiavo nei ristoranti, andavo in palestra e dormivo tre ore a notte – racconta Papa a ilfattoquotidiano.it da Miami, dove da sette anni ha la residenza e fa il pendolare con Las Vegas – Non è stato facile, i primi tempi dormivo in ostelli o nei divani di conoscenti che mi ospitavano. Qui la vita è super cara e ogni anno aumenta. Ma non ho mai mollato, non so quanti sparring duri ho fatto con gente come Luke Campbell, Jeison Rosario, George Kambosos, David Haney. Con centinaia di persone a bordo ring che guardano il combattimento e magari sottobanco scommettono. Negli Stati Uniti è una giungla, ti devi dare da fare. Perché fuori di pugili validi come te ce ne sono a centinaia. Però se ti dai da fare, qui ti danno delle opportunità e viene retribuito per quanto meriti”.
A breve Papa tornerà sul ring per il nono match ufficiale (record al momento immacolato, tutte vittorie). Vive di boxe ed in mente ha molti progetti per il futuro, con uno di questi vuole aiutare i pugili italiani che volessero intraprendere lo stesso suo viaggio. Perché i pugili italiani sognano ancora l’America. Attualmente una decina di giovani pugili italiani si è trasferita negli States per combattere, al netto di alcuni periodici ritorni in Italia per la questione dei visti che scadono. Il più famoso di tutti è il peso massimo Guido Vianello, sotto contratto con la Top Rank di Bob Arum e che il prossimo 13 aprile in Texas si gioca con il nigeriano Efe Ajagba la cintura silver Wbc. Davvero ad un passo dalla gloria mondiale. Il romano Vianello si divide tra Los Angeles, New York, Las Vegas. Negli Usa i nostri ragazzi solitamente trovano palestre di professionisti, con maestri e colleghi che li accolgono senza troppa diffidenza. Se dimostrano di saperci fare e di dare il massimo, per loro si aprono le porte del professionismo, con sedute di sparring retribuiti e match pagati, non necessariamente in contesti prestigiosi, molto meglio che in Italia.
Certo che i voli aerei costano, serve un budget iniziale per vivere e magari la disponibilità di trovare inizialmente un secondo lavoro (in realtà con il visto da turista non lo puoi fare in regola) e meglio partire già con il contatto di un addetto ai lavori (un maestro, un pugile, un manager) in loco. Simone Pippia ha lasciato la Sardegna per inseguire il sogno americano nel 2015. Non era mai uscito in vita sua dall’isola. Non era mai stato neanche a Roma. Quattrocento dollari in tasca, il biglietto aereo preso grazie ai sacrifici della sua famiglia, il numero di telefono di un maestro cubano e si trasferisce a Miami. Alle sei di mattina del giorno dopo l’arrivo gli suona il campanello il fenomeno cubano Guillermo Rigondeaux per andare a correre insieme. Per vivere ha trovato in qualche modo un lavoretto in un bar. “Li nessuno mi conosceva – racconta a ilfattoquotidiano.it – ma già al primo sparring in palestra mi hanno applaudito, gli americani sono contenti di vedere quando qualcuno si applica. Dopo aver fatto sparring con dei campioni, esci dal ring con una consapevolezza diversa perché pensi che alla fine hai due gambe e due braccia proprio come loro. Consiglio di fare come ho agito io, ma di avere un appoggio là perché sennò è tutto difficile, anche capire un Paese dove tutto è grande. Purtroppo ora è diventato molto più caro. Ho fatto i conti che vivere in un ostello condiviso con altre persone mi costerà 700 dollari al mese, 1000-1500 per mangiare. In questo momento mi trovo in Italia per una questione di visti, ma a breve voglio trasferirmi a Las Vegas”. Dopo una fase iniziale nella prima palestra, è passato alla World Famous 5th St Gym, quella dove un tempo si allenava anche Muhammad Ali. Ha fatto sedute di guanti con George Kambosos, Xander Zayas, Ryan García e Julio César Chávez Jr. ed esordito da professionista nel 2018 a Santo Domingo. Al momento il suo record è di quattro vittorie su quattro incontri”.
Luigi Notini ha 21 anni quando nel 2022 decide di trasferirsi in Florida, dove trova lavoro come bartender. Da ragazzo è stato un pugile dilettante, ma ora vuole cambiare vita e concentrarsi soprattutto sul nuovo mestiere, cercando di capire il nuovo Paese dove si è trasferito. Per tenersi in forma, inizialmente solo per quello, entra alla 5th Gym dove in quel momento si allena anche Daniele Scardina. Il maestro Dino Spencer non gli fa pagare la retta mensile, anzi un sabato gli chiede di fare tre riprese di sparring con Chris Colbert, arrivato da New York in preparazione per un match. Notini non è allenatissimo, come lo era invece un tempo da dilettante in Italia, ma se la cava bene e così gli chiedono di fare sparring sempre più spesso. “Vengo pagato per le sedute di guanti – dice a ilfattoquotidiano.it il peso leggero italiano – poi con un altro pugile italiano, trovato lì per caso, Rocky Vassallo, passiamo Pro in una riunione nella Repubblica Dominicana. Da quel momento quello è l’obiettivo, il prossimo settembre voglio ritornare in America. Ora sono in Italia per una questione di visti. Lì c’è un’altra visione del pugilato, un altro metodo di allenamento, un altro livello. I campioni sono umili e pieni di umanità, vanno dai giovani a congratularsi e a dare suggerimenti. Poi i match anche a basso livello vengono pagati tantissimo. Un mestierante in Italia prende circa 1200 euro per un match, in Usa 4000 dollari”. Luigi Notini oggi ha sei vittorie su sei incontri, il suo collega Rocco Vassallo nove su nove e il 5 aprile combatterà per un match titolato su 10 round.
Il massimo Davide Brito (tre vittorie su tre, il 4 maggio impegnato in match a Richmond, in Virginia) ha sempre avuto l’obiettivo di diventare Pro in America, dopo la carriera da dilettante in Italia, anche in Nazionale. Il suo trasferimento a Miami è stato agevolato da parenti già li. “L’America ti dà opportunità, ma dipende sempre dal talento e dalla volontà che ci si mette. Apprezzano la persona che si sacrifica e che si mette in gioco. Non passi inosservato se fai bene le cose”. Ha fatto su e giù con l’Italia, tre mesi in Florida e uno in Toscana, in attesa che l’ambasciata rilasci i documenti per poter fare definitivamente l’atleta là. “Frequento una bella palestra, moderna, dove passano grandi pugili. Ci trovi tutto quello di cui uno sportivo ha bisogno. Dove abito io in ogni angolo ci sono palestre di boxe o altri tipi di combattimento. I maestri hanno un loro modo di allenare, lavorano molto sulle figure, a livello tecnico cercano di migliorare la precisione, la forza e l’esplosività dei colpi, anche a livello atletico il carico è diverso. Mi sembra invece che in Italia si punti più sul ritmo pure tra i dilettanti. Qui la vita costa molto, soprattutto nel quartiere di Miami in cui vivo. Meglio avere degli agganci per intraprendere questo percorso, ma è una esperienza che va fatta”.
Fa base a New York invece il siciliano Giovanni Scuderi. Il cruiser si allena alla Cops and Kids di Brooklyn con il maestro Andre Rozier: lo scorso 15 marzo ha combattuto al limite dei pesi massimi al Madison Square Garden, vincendo il suo decimo incontro su dieci. Pochi giorni è volato a Valencia per fare sparring con il campione del mondo Oleksandr Usyk, impegnato a breve nel super match con Tyson Fury. Il catanese ha girato gli Stati Uniti prima di far diventare New York la sua casa. Ha lavorato nel team di Evander Holyfield, ma poi ha preferito aprirne uno tutto suo. “All’inizio non parlavo l’inglese – dice Scuderi a ilfattoquotidiano.it – poi con il lavoro duro mi sono costruito da solo. Se sai combattere, hai seguito, curi bene il marketing… in Usa ce la puoi fare, anche se ovviamente non è facile”. Arrivare all’apice nei pesi massimi sarà una cosa quasi impossibile, ma nei cruiser o nei bridger (categoria recente) può sognare. Del resto stiamo parlando degli Stati Uniti.
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Il sogno americano dei pugili italiani: dallo sparring con Mayweather alla palestra di Muhammad Ali, le storie dei boxeurs emigranti
Nel 2020, con già sette match vinti in carriera, il pugile italiano Matteo Papa prova ad entrare alla Mayweather Boxing Club di Las Vegas. Viene sbattuto fuori dalla palestra senza troppi complimenti perché quel giorno ad allenarsi c’era il campione del mondo Gervonta Davis, uno degli atleti più forti in assoluto nella boxe attuale.
Matteo non è un ragazzo che demorde, ha lasciato la sua Varese a diciannove anni dopo aver fatto il dilettante per cercare fortuna all’estero dentro ad un ring. L’indomani torna in palestra, lo lasciano in anticamera ad aspettare per ore. Poi non solo lo fanno allenare, gli chiedono di fare sparring con Davis che deve preparare la difesa del titolo. Non prima però che a bordo ring arrivi Floyd Mayweather Jr, una delle stelle più luminose del recente passato del pugilato mondiale. La palestra infatti è sua. A fine della seduta Floyd avvicina Matteo e gli dice quattro parole che il ragazzo italiano, classe 1992, non dimenticherà mai: “Ora puoi allenarti qui”. Papa un giorno farà cinque round di sparring anche con lo stesso Mayweather, ritirato da qualche anno ma ancora in splendida forma. Da allora viene messo sotto contratto con la Mayweather Promotion, significa che fino al 2027 è stipendiato ed in regola con il visto americano e potrà così stare almeno fino a quel giorno negli States.
Dopo una sessantina di match da dilettanti se n’era andato fuori dall’Italia: Londra, New York, Messico, Miami, Las Vegas. “Lavoricchiavo nei ristoranti, andavo in palestra e dormivo tre ore a notte – racconta Papa a ilfattoquotidiano.it da Miami, dove da sette anni ha la residenza e fa il pendolare con Las Vegas – Non è stato facile, i primi tempi dormivo in ostelli o nei divani di conoscenti che mi ospitavano. Qui la vita è super cara e ogni anno aumenta. Ma non ho mai mollato, non so quanti sparring duri ho fatto con gente come Luke Campbell, Jeison Rosario, George Kambosos, David Haney. Con centinaia di persone a bordo ring che guardano il combattimento e magari sottobanco scommettono. Negli Stati Uniti è una giungla, ti devi dare da fare. Perché fuori di pugili validi come te ce ne sono a centinaia. Però se ti dai da fare, qui ti danno delle opportunità e viene retribuito per quanto meriti”.
A breve Papa tornerà sul ring per il nono match ufficiale (record al momento immacolato, tutte vittorie). Vive di boxe ed in mente ha molti progetti per il futuro, con uno di questi vuole aiutare i pugili italiani che volessero intraprendere lo stesso suo viaggio. Perché i pugili italiani sognano ancora l’America. Attualmente una decina di giovani pugili italiani si è trasferita negli States per combattere, al netto di alcuni periodici ritorni in Italia per la questione dei visti che scadono. Il più famoso di tutti è il peso massimo Guido Vianello, sotto contratto con la Top Rank di Bob Arum e che il prossimo 13 aprile in Texas si gioca con il nigeriano Efe Ajagba la cintura silver Wbc. Davvero ad un passo dalla gloria mondiale. Il romano Vianello si divide tra Los Angeles, New York, Las Vegas. Negli Usa i nostri ragazzi solitamente trovano palestre di professionisti, con maestri e colleghi che li accolgono senza troppa diffidenza. Se dimostrano di saperci fare e di dare il massimo, per loro si aprono le porte del professionismo, con sedute di sparring retribuiti e match pagati, non necessariamente in contesti prestigiosi, molto meglio che in Italia.
Certo che i voli aerei costano, serve un budget iniziale per vivere e magari la disponibilità di trovare inizialmente un secondo lavoro (in realtà con il visto da turista non lo puoi fare in regola) e meglio partire già con il contatto di un addetto ai lavori (un maestro, un pugile, un manager) in loco. Simone Pippia ha lasciato la Sardegna per inseguire il sogno americano nel 2015. Non era mai uscito in vita sua dall’isola. Non era mai stato neanche a Roma. Quattrocento dollari in tasca, il biglietto aereo preso grazie ai sacrifici della sua famiglia, il numero di telefono di un maestro cubano e si trasferisce a Miami. Alle sei di mattina del giorno dopo l’arrivo gli suona il campanello il fenomeno cubano Guillermo Rigondeaux per andare a correre insieme. Per vivere ha trovato in qualche modo un lavoretto in un bar. “Li nessuno mi conosceva – racconta a ilfattoquotidiano.it – ma già al primo sparring in palestra mi hanno applaudito, gli americani sono contenti di vedere quando qualcuno si applica. Dopo aver fatto sparring con dei campioni, esci dal ring con una consapevolezza diversa perché pensi che alla fine hai due gambe e due braccia proprio come loro. Consiglio di fare come ho agito io, ma di avere un appoggio là perché sennò è tutto difficile, anche capire un Paese dove tutto è grande. Purtroppo ora è diventato molto più caro. Ho fatto i conti che vivere in un ostello condiviso con altre persone mi costerà 700 dollari al mese, 1000-1500 per mangiare. In questo momento mi trovo in Italia per una questione di visti, ma a breve voglio trasferirmi a Las Vegas”. Dopo una fase iniziale nella prima palestra, è passato alla World Famous 5th St Gym, quella dove un tempo si allenava anche Muhammad Ali. Ha fatto sedute di guanti con George Kambosos, Xander Zayas, Ryan García e Julio César Chávez Jr. ed esordito da professionista nel 2018 a Santo Domingo. Al momento il suo record è di quattro vittorie su quattro incontri”.
Luigi Notini ha 21 anni quando nel 2022 decide di trasferirsi in Florida, dove trova lavoro come bartender. Da ragazzo è stato un pugile dilettante, ma ora vuole cambiare vita e concentrarsi soprattutto sul nuovo mestiere, cercando di capire il nuovo Paese dove si è trasferito. Per tenersi in forma, inizialmente solo per quello, entra alla 5th Gym dove in quel momento si allena anche Daniele Scardina. Il maestro Dino Spencer non gli fa pagare la retta mensile, anzi un sabato gli chiede di fare tre riprese di sparring con Chris Colbert, arrivato da New York in preparazione per un match. Notini non è allenatissimo, come lo era invece un tempo da dilettante in Italia, ma se la cava bene e così gli chiedono di fare sparring sempre più spesso. “Vengo pagato per le sedute di guanti – dice a ilfattoquotidiano.it il peso leggero italiano – poi con un altro pugile italiano, trovato lì per caso, Rocky Vassallo, passiamo Pro in una riunione nella Repubblica Dominicana. Da quel momento quello è l’obiettivo, il prossimo settembre voglio ritornare in America. Ora sono in Italia per una questione di visti. Lì c’è un’altra visione del pugilato, un altro metodo di allenamento, un altro livello. I campioni sono umili e pieni di umanità, vanno dai giovani a congratularsi e a dare suggerimenti. Poi i match anche a basso livello vengono pagati tantissimo. Un mestierante in Italia prende circa 1200 euro per un match, in Usa 4000 dollari”. Luigi Notini oggi ha sei vittorie su sei incontri, il suo collega Rocco Vassallo nove su nove e il 5 aprile combatterà per un match titolato su 10 round.
Il massimo Davide Brito (tre vittorie su tre, il 4 maggio impegnato in match a Richmond, in Virginia) ha sempre avuto l’obiettivo di diventare Pro in America, dopo la carriera da dilettante in Italia, anche in Nazionale. Il suo trasferimento a Miami è stato agevolato da parenti già li. “L’America ti dà opportunità, ma dipende sempre dal talento e dalla volontà che ci si mette. Apprezzano la persona che si sacrifica e che si mette in gioco. Non passi inosservato se fai bene le cose”. Ha fatto su e giù con l’Italia, tre mesi in Florida e uno in Toscana, in attesa che l’ambasciata rilasci i documenti per poter fare definitivamente l’atleta là. “Frequento una bella palestra, moderna, dove passano grandi pugili. Ci trovi tutto quello di cui uno sportivo ha bisogno. Dove abito io in ogni angolo ci sono palestre di boxe o altri tipi di combattimento. I maestri hanno un loro modo di allenare, lavorano molto sulle figure, a livello tecnico cercano di migliorare la precisione, la forza e l’esplosività dei colpi, anche a livello atletico il carico è diverso. Mi sembra invece che in Italia si punti più sul ritmo pure tra i dilettanti. Qui la vita costa molto, soprattutto nel quartiere di Miami in cui vivo. Meglio avere degli agganci per intraprendere questo percorso, ma è una esperienza che va fatta”.
Fa base a New York invece il siciliano Giovanni Scuderi. Il cruiser si allena alla Cops and Kids di Brooklyn con il maestro Andre Rozier: lo scorso 15 marzo ha combattuto al limite dei pesi massimi al Madison Square Garden, vincendo il suo decimo incontro su dieci. Pochi giorni è volato a Valencia per fare sparring con il campione del mondo Oleksandr Usyk, impegnato a breve nel super match con Tyson Fury. Il catanese ha girato gli Stati Uniti prima di far diventare New York la sua casa. Ha lavorato nel team di Evander Holyfield, ma poi ha preferito aprirne uno tutto suo. “All’inizio non parlavo l’inglese – dice Scuderi a ilfattoquotidiano.it – poi con il lavoro duro mi sono costruito da solo. Se sai combattere, hai seguito, curi bene il marketing… in Usa ce la puoi fare, anche se ovviamente non è facile”. Arrivare all’apice nei pesi massimi sarà una cosa quasi impossibile, ma nei cruiser o nei bridger (categoria recente) può sognare. Del resto stiamo parlando degli Stati Uniti.
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Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Ha ribadito le perplessità sul formato del vertice di Parigi, sull'invio di truppe europee in Ucraina e la necessità di percorrere strade che prevedano il coinvolgimento degli Stati Uniti. Queste le linee, a quanto si apprende, dell'intervento della premier Giorgia Meloni oggi al summit a Parigi convocato da Emmanuel Macron alla presenza del britannico Keir Starmer, del premier olandese, Dick Schoof, del cancelliere tedesco Olaf Scholz, del capo del governo polacco Donald Tusk e del primo ministro spagnolo Pedro Sanchez. All'Eliseo anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte e i vertici Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen.
Meloni, a quanto si apprende, ha sottolineato di aver voluto essere presente per non rinunciare a portare il punto di vista dell’Italia, ma di avere espresso le sue perplessità riguardo un formato che, a suo giudizio, esclude molti Paesi, a partire da quelle più esposti al rischio di estensione del conflitto, anziché includere, come sarebbe opportuno fare in una fase storica come questa. Anche perché, avrebbe rimarcato la premier, la guerra in Ucraina l’abbiamo pagata tutti.
Per l'Italia le questioni centrali rimangono le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, perché senza queste ogni negoziato rischia di fallire. Quindi Meloni avrebbe rimarcato l'utilità di un confronto tra le varie ipotesi in campo, osservando come quella che prevede il dispiegamento di soldati europei in Ucraina appaia come la più complessa e forse la meno efficace. Una strada su cui l'Italia avrebbe mostrato le sue perplessità al tavolo.
Secondo Meloni, a quanto viene riferito, andrebbero esplorate altre strade che prevedano il coinvolgimento anche degli Stati Uniti, perché è nel contesto euro-atlantico che si fonda la sicurezza europea e americana. La premier avrebbe definito una sferzata sul ruolo dell'Europa quella lanciata dall'amministrazione Usa ma ricordando che prima di questa analoghe considerazioni sono state già state fatte da importanti personalità europee. È una sfida, avrebbe quindi sottolineato, per essere più concreti e concentrarsi sulle cose davvero importanti, come la necessità di difendere la nostra sicurezza a 360 gradi, i nostri confini, i nostri cittadini, il nostro sistema produttivo.
Secondo la presidente del Consiglio sono i cittadini europei a chiederlo: non dobbiamo chiederci cosa gli americani possono fare per noi, ma cosa noi dobbiamo fare per noi stessi.
Meloni avrebbe quindi rimarcato come il formato del summit all'Eliseo non vada considerato come un formato anti-Trump. Tutt’altro. Gli Stati Uniti lavorano a giungere ad una pace in Ucraina e noi dobbiamo fare la nostra parte, la sollecitazione della premier italiana. Meloni infine, sempre a quanto si apprende, avrebbe manifestato condivisione per il senso della parole del Vice Presidente degli Stati Uniti Vance, ricordando di aver espresso concetti simili in precedenza. Ancora prima di garantire la sicurezza in Europa, avrebbe sottolineato Meloni, è necessario sapere che cosa stiamo difendendo.
Parigi, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - "La Russia minaccia tutta l'Europa". Lo ha detto la premier danese Mette Frederiksen dopo i colloqui di emergenza a Parigi sul cambiamento di politica degli Stati Uniti sulla guerra in Ucraina.
La guerra in Ucraina riguarda i "sogni imperialisti di Mosca, di costruire una Russia più forte e più grande, e non credo che si fermeranno in Ucraina", ha detto ai giornalisti, mettendo in guardia gli Stati Uniti dai tentativi di concordare un cessate il fuoco "rapido" che darebbe alla Russia la possibilità di "mobilitarsi di nuovo, attaccare l'Ucraina o un altro paese in Europa".
Parigi, 17 feb. (Adnkronos) - "Oggi a Parigi abbiamo ribadito che l'Ucraina merita la pace attraverso la forza. Una pace rispettosa della sua indipendenza, sovranità, integrità territoriale, con forti garanzie di sicurezza. L'Europa si fa carico della sua intera quota di assistenza militare all'Ucraina. Allo stesso tempo abbiamo bisogno di un rafforzamento della difesa in Europa". Lo ha scritto su X la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.