Franco Daniel Muratore, ingegnere 37enne, vive all’estero da dieci anni. Dopo una parentesi in Qatar, dal 2017 abita in Australia, dove ha messo su famiglia con una collega italiana conosciuta ai tempi dell’Università. Lavora a Perth per una multinazionale che si occupa di ingegneria e costruzioni. Pensa di rimanerci per un motivo su tutti: “Qui conta solo quello che fai e come lo fai – dice a ilfattoquotidiano.it – C’è trasparenza nelle carriere e l’azienda cerca di aiutare i dipendenti a conciliare la vita con il lavoro. Per l’Italia facevo turni da dodici ore al giorno sei giorni su sette”.

Muratore è nato in Argentina da genitori di origine italiana. I suoi si sono trasferiti in Piemonte quando lui era al secondo anno di scuole superiori e lo hanno portato con sé. “È stato un bel cambiamento – racconta – andare a scuola non capire niente”. È cresciuto a Santhià, in provincia di Vercelli, poi ha studiato Ingegneria civile al Politecnico di Torino, ed è lì che ha conosciuto anche sua moglie durante un master in Tunnelling. “Tanti dei nostri colleghi hanno trovato lavoro fuori – racconta – perché le aziende italiane avevano per lo più progetti all’estero”. La moglie, in realtà, era stata assunta in Toscana.

Per Franco è stato più difficile. Quando si è laureato in ingegneria civile al Politecnico di Torino ha trovato posizioni libere solo con la sua qualifica di perito meccanico. “Avevo mandato un po’ di curriculum ma con la laurea mi proponevano soltanto stage non retribuiti o lavori pagati pochissimo”, racconta. La svolta è arrivata con il master da tunnelista. Appena conseguito, una delle più grandi aziende italiane di costruzioni lo ha assunto. Ma lo ha spedito a Doha. “Dal punto di vista lavorativo è stata una rampa di lancio importante. Sul piano economico è stato parecchio sopra il livello di partenza in Italia. Ma il Qatar non è un posto dove sarei rimasto a vivere”, racconta.

Tre anni dopo, l’azienda gli ha chiesto di trasferirsi a Perth per un altro progetto e da lì non è più rientrato. “In Italia le città sono più caotiche. Qui si vive tranquilli. Dal punto di vista professionale penso che la meritocrazia funzioni e la retribuzione sia consona alla mole di lavoro richiesta” dice. A seguirlo è stata la moglie, una scelta dettata dalle circostanze. “Personalmente sarei tornato in Italia – dice – anche perché lei aveva un ottimo lavoro e un buono stipendio ma abbiamo capito che sarebbe stato più complicato per me trovare qualcosa”.

La ricerca di lavoro in Australia per la moglie non è stata problematica, come nemmeno per lui cambiare quando il posto in cui stava da anni ha cominciato a stargli stretto. “C’è una cultura diversa. Le università australiane mandano gli studenti a fare tirocini (pagati) dal primo anno. Non si toccano da subito aspetti tecnici, ma significa che i neolaureati hanno maturato già un’esperienza anche di cinque anni prima di terminare gli studi”, racconta.

Questo rende l’intero mercato più fluido. Così, quando ha capito di avere bisogno di altro, è stato facile trovarlo. “Ho cambiato – racconta – perché volevo la cittadinanza permanente ma l’azienda in cui ero non intendeva aiutarmi a prenderla”.

Muratore era arrivato in Australia con un visto temporaneo sponsorizzato dalla società. Quel certificato però non permette di avere accesso all’intero sistema di welfare australiano. “È diventata una priorità quando con mia moglie abbiamo cominciato a pensare alla nostra famiglia – racconta – Grazie ai miei nonni io ho un passaporto italo argentino e mi ha sempre aiutato nella vita. Lo stesso voglio fare con i miei figli”. I bambini hanno tre e cinque anni. Parlano principalmente inglese e capiscono l’italiano ma non lo usano ancora per esprimersi. “Mi spiace che i miei figli siano arrivati quando lavoravo ancora per un’azienda italiana. Avevo solo pochi giorni per il congedo di paternità. Adesso avrei diritto a sei mesi pieni in virtù del sistema australiano, dal momento che mia moglie lavora anche lei a tempo pieno, altrimenti avrei 3 settimane”. Proprio per queste differenze nelle logiche aziendali, nell’equilibrio vita-lavoro e nel trattamento dei dipendenti, l’ipotesi di un rientro rimane lontano anche se il legame con l’Italia è rimasto forte. “L’azienda britannica è più trasparente, le performance vengono comunicate ogni sei mesi e gli scatti di carriera sono un passaggio normale”.

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