Il 7 maggio del 1999 la guerra del Kosovo stava ormai finendo. Le milizie serbe erano piegate dopo mesi di bombardamenti Nato. Ma in quei giorni un episodio costrinse il presidente americano, Bill Clinton, a scusarsi pubblicamente: cinque bombe guidate statunitensi si abbatterono sull‘ambasciata cinese a Belgrado, uccidendo tre giornalisti della Repubblica Popolare e scatenando l’indignazione internazionale. Un attacco deliberato a una sede diplomatica di un Paese non in guerra. Un attacco che andava contro ogni rispetto dell’inviolabilità degli edifici diplomatici e che non si è più ripetuto. Fino a oggi, con il raid israeliano sul consolato iraniano di Damasco.

L’attacco dello ‘Stato ebraico‘ è quindi un evento praticamente senza eguali nella storia recente. Mai, se non nell’episodio citato della guerra del Kosovo, un esercito regolare ha preso deliberatamente di mira una sede diplomatica straniera. In quel maggio del 1999 la Casa Bianca fu costretta a scusarsi affermando di aver commesso un errore nel tentativo di colpire una struttura militare jugoslava presente nella stessa strada, anche se recenti rivelazioni hanno sollevato qualche dubbio su questa versione sostenendo che gli Usa spararono per distruggere i resti di un loro cacciabombardiere stealth F-117 Nighthawk abbattuto circa un mese prima dalle Forze armate serbe. Da Israele, in questo caso, nemmeno il tentativo di farlo passare come un errore: i missili di Tel Aviv hanno intenzionalmente colpito la struttura diplomatica iraniana provocando almeno otto morti.

Pur non tenendo conto delle reazioni dell’Iran e dei suoi alleati, con Teheran che ha chiesto la convocazione di una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, a rendere chiara la gravità dell’azione militare sono le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che “condanna” l’attacco e riafferma che “il principio dell’inviolabilità delle sedi e del personale diplomatico e consolare deve essere rispettato in ogni caso in conformità con il diritto internazionale”.

Anche perché, come detto, di precedenti ce ne sono ben pochi. Prima ancora del raid di Belgrado, nel 1998 oggetto di attentati che provocarono in totale 224 morti furono le ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Non si trattava, però, di un’operazione condotta da un esercito regolare, bensì di attentati-bomba ordinati dal capo di al-Qaeda, Osama bin Laden. Così come non era un esercito regolare quello che nel pieno della rivoluzione iraniana del 1979 assaltò l’ambasciata americana di Teheran prendendo in ostaggio 52 persone. Stessa cosa vale per l’attentato suicida di Hezbollah all’ambasciata americana di Beirut, in piena guerra civile libanese, che portò alla morte di 63 persone.

In tempi più recenti, ci sono poi stati l’autobomba contro il consolato italiano al Cairo firmata Isis, l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad del capodanno 2020 fomentato da milizie locali fedeli a Teheran, persino un assedio di civili all’ambasciata israeliana in Giordania a causa proprio del conflitto a Gaza. L’unico episodio che non ha visto la responsabilità di terroristi o milizie è quello dell’ottobre 2022, quando un razzo russo ha colpito l’edificio che ospita il consolato tedesco a Kiev. Ma la struttura era fuori uso ed evacuata già dall’inizio dell’invasione delle forze di Mosca.

L’eccezionalità del raid israeliano contro una sede diplomatica in territorio straniero, quindi, può essere il fattore che rischia di provocare un’escalation del conflitto in tutta l’area mediorientale. Innanzitutto perché Teheran, che da anni ormai porta avanti un processo di arricchimento dell’uranio probabilmente anche per scopi militari, potrebbe considerarlo al pari di un attacco sul proprio territorio e, di conseguenza, un atto di guerra da parte di Israele. E anche perché, con questa mossa, lo ‘Stato ebraico’, dopo aver bombardato indiscriminatamente ospedali, ambulanze e strutture delle Nazioni Unite usate per dare rifugio agli sfollati della guerra, dimostra nuovamente di non essere disposto a fermarsi di fronte ai Trattati o alle consuetudini internazionali: “Stiamo lavorando ovunque per impedire il rafforzamento dei nostri nemici”, ha confermato il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Portando avanti così un processo di normalizzazione dell’escalation che rischia di trascinare tutto il Medio Oriente verso un punto di non ritorno.

Twitter: @GianniRosini

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