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I segreti della Scienza per la longevità: “La genetica conta solo il 20-25% per invecchiare in salute, tutto il resto lo fa lo stile di vita”

L'INCHIESTA POP - Se potessimo vivere fino a 150 anni, vorremmo farlo? Se sì, come? A quale costo, e con quali opportunità? L'intervista all’immunologo Alberto Beretta, Presidente e Direttore scientifico di SoLongevity

Siamo sempre più vecchi. E lo saremo sempre di più. L’allungamento della vita è, forse, la più grande trasformazione del secolo. Secondo il World Social Report 2023 delle Nazioni Unite, entro il 2050 il numero di individui sopra i 65 anni raddoppierà, superando i due miliardi di persone. L’Italia è già il Paese europeo con l’età media più alta. I bambini nati nel 2021 possono legittimamente aspettarsi di vivere 25 anni in più rispetto a chi è venuto al mondo nel 1950. Guardando indietro a un secolo fa, abbiamo guadagnato interi decenni di vita: un’opportunità, ma anche una sfida. In futuro vivremo davvero fino a 120 anni? Se sì, come? A quale costo, e con quali opportunità?

Per tentare di rispondere a queste domande si è svolto il Milan Longevity Summit, due settimane di incontri dal titolo “Riscrivere Il Tempo – Scienza e miti nella corsa alla longevità”. L’evento, organizzato da BrainCircle Italia e patrocinato dal Comune di Milano, ha riunito nel capoluogo lombardo decine di esperti mondiali che si sono confrontati sulla svolta demografica in atto sotto ogni punto di vista: dalla ricerca scientifica alla responsabilità sociale, fino alle questioni di genere e all’organizzazione delle città. “Ho cominciato con l’idea di presentare la ricerca scientifica cutting-edge nell’ambito della longevity – spiega Viviana Kasam, presidente BrainCircle Italia e ideatrice del Summit – Mi sono però resa conto che è solo la punta dell’iceberg. Perché l’invecchiamento della popolazione comporta un cambiamento totale dell’organizzazione sociale, del mondo del lavoro, delle pensioni, e sta dando origine a quella che io chiamo la ‘Longevity Rush’, analoga alla corsa all’oro all’inizio del secolo scorso”. La questione non è più come affrontare al meglio la “terza età”, ma la “quarta età”, dai 75 anni in su: la sfida è promuovere la cosiddetta aging intelligence, che parte dai comportamenti individuali fino a coinvolgere nuova consapevolezza politica, sociale. Gli anziani infatti non possono (e non devono) essere solo una voce di spesa per la collettività, ma sono persone portatrici di interessi, di abilità, di competenze, capaci di dare il proprio contributo alla società. La scienza ci dice che possiamo rallentare le lancette dell’orologio biologico. Se non addirittura, in un futuro non troppo lontano, fermarle. Il punto però non è vivere più anni, ma vivere bene il più a lungo possibile. E provare a goderci gli anni della terza e quarta età in salute.

Qual è il segreto della longevità?
Più che della durata della vita (‘life span’) quindi dovremmo preoccuparci della ‘health span’ (letteralmente: la durata della salute) cioè degli anni liberi da malattie tali da condizionarci l’esistenza. Ma l’elisir di lunga vita – a patto che esista – si trova nei nostri geni o nelle nostre abitudini? Su questo tema, al summit è intervenuto l’immunologo Alberto Beretta, Presidente e Direttore scientifico di SoLongevity. La sua ricerca si concentra in particolare sul ruolo dei meccanismi genetici ed epigenetici nel modo in cui invecchiamo. “Si calcola che la genetica abbia un impatto stimabile tra il 20-25% sull’invecchiamento in salute, tutto il resto lo fa lo stile di vita – spiega al Fattoquotidiano.it – questo perché i geni non sono una condanna o un trionfo garantito, sono l’inizio di un processo biologico estremamente complesso influenzato dal modo in cui viviamo. Altro discorso vale per i centenari: per vivere oltre i 100 anni bisogna essere ben forniti geneticamente”. La ricetta magica per garantirci una vecchiaia serena – dieta, esercizio, sonno regolare e vita sana – la conosciamo tutti, anche se raramente la applichiamo. Se dovessimo scegliere da dove partire, però, il professor Beretta non ha dubbi: “La madre di tutte le terapie è l’attività fisica, il cui impatto è molto ben documentato. Dobbiamo andare ben al di là della famosa soglia dei 10mila passi al giorno: sappiamo che l’esercizio mirato, calibrato sotto controllo medico e dei professionisti, può ridurre enormemente l’impatto di molte patologie”. I dati sono impressionanti anche per una malattia come il cancro: “Un’attività fisica abbastanza intensa settimanale può ridurre fino al 35% la mortalità dei tumori. Muovendoci, mettiamo in pista centinaia di meccanismi biochimici diversi, ma sappiamo che c’è una correlazione diretta tra riduzione dei rischi cardiovascolari, aumento delle performance cognitive e riduzione della mortalità oncologica”.

L’importanza della socialità
“Per quanto riguarda la sfera nutrizionale – aggiunge il direttore di SoLongevity – la regola d’oro è la restrizione calorica, cioè mangiare meno di quanto si vorrebbe”. Tra i fattori che ci aiutano a invecchiare bene ci sono anche le relazioni sociali: il tempo che passiamo con gli altri e la soddisfazione che ne ricaviamo. L’argomento più convincente a favore di questa tesi è l’osservazione degli anziani che vivono nelle Blue Zone, le aree geografiche del pianeta con un’alta concentrazione di ultracentenari, come l’isola di Okinawa in Giappone o l’Ogliastra in Sardegna. “Sono anziani che hanno una socialità molto vivace. Una cosa che suggeriamo spesso ai nostri pazienti è il ballo: la danza è contemporaneamente attività fisica e socialità. Tutto ciò che comporta un’interazione con altre persone – giochi di carte, attività di gruppo – aumenta enormemente la connettività fra i neuroni e migliora di molto la performance cognitiva”. Occuparsi (anziché preoccuparsi) della vecchiaia non è solo una faccenda individuale: è una questione sociale di massima importanza che deve essere affrontata dai governi. “Abbiamo a che fare con un invecchiamento della popolazione veramente impressionante – commenta il professor Beretta – Se non riusciamo a impattare sull’incidenza delle patologie croniche della terza età rischiamo di mandare completamente in tilt il Sistema sanitario nazionale che già oggi fa fatica a gestire tutta l’emergenza delle patologie. Senza dimenticare il rischio dell’arrivo di altre pandemie. La prevenzione deve entrare nelle corde del Sistema sanitario, soprattutto nella medicina del territorio. I medici di famiglia dovrebbero essere primi attori sul fronte della prevenzione ma non ci riescono perché sono travolti dalla quotidianità di patologie da gestire. La situazione è seria e richiede un cambio radicale di politiche sanitarie e investimenti nella ricerca e nell’attività medica”. Ma quand’è che dovremmo iniziare a pensare alla vecchiaia? Orientativamente, intorno ai 35 anni: questo non significa che non si debbano assumere sane abitudini fin da bambini, soprattutto in campo alimentare. Ma non significa nemmeno che, superata la soglia dei 50 anni, non ci sia “più nulla da fare”.

Il miliardario che vuole vivere per sempre
Ci sono poi dei casi estremi, come quello di Bryan Johnson (46 anni) imprenditore tech che sta dedicando il suo tempo e le sue risorse a quello che chiama il Blueprint Project: non morire. Per farlo, ha assunto uno staff di professionisti che gli costa circa 2 milioni di dollari l’anno e che lo tiene costantemente monitorato. “È un esempio estremo, noi nella nostra pratica abbiamo visto persone con un’età biologica cinque anni inferiore all’età cronologica semplicemente perché fanno ciò che bisogna fare, cioè mangiare bene, muoversi e prendere gli integratori giusti”. Il caso di Johnson però apre alcune riflessioni sul futuro: se la tecnologia sta cercando l’elisir dell’eterna giovinezza, la longevità diventerà un lusso? L’aspettativa di vita sarà legata al censo? “L’arretramento dell’età biologica ormai è una realtà dimostrata scientificamente. Abbiamo bisogno di più evidenze, certo, ma è nel nostro mirino, sappiamo che è ottenibile senza spendere milioni di dollari”. Il tema della disparità sociale, però, è già presente: “In Inghilterra, ad esempio, la differenza di aspettativa di vita tra classi abbienti e meno abbienti raggiunge i 20 anni. Un dato che fa spavento. Stiamo già lottando contro una disparità sociale in termini di accesso alle cure, di qualità del lavoro e della vita. Riuscire a coinvolgere tutte le fasce della popolazione, senza disparità di reddito, è un’impresa ardua che può essere fatta solo con un grande investimento da parte della politica”.

Le questioni etiche della medicina rigenerativa
Vivere di più non è solo una questione di chimica e biologia: dal punto di vista psicologico, come cambierà il nostro rapporto con l’idea della morte e della decadenza fisica, ancora oggi un tabù? Quali questioni etiche solleveranno le nuove conquiste scientifiche? “Noi, oggi, abbiamo due aree di intervento: una è la prevenzione, tramite abitudini di vita e diagnostica di precisione, che può essere democratizzata e messa a disposizione di tutti. C’è poi tutta l’area della medicina rigenerativa, legata alle tecniche di riprogrammazione cellulare che riportano una cellula vecchia “indietro” fino a farla tornare giovane. Questa area genererà sicuramente tecnologie molto interessanti, ma troverà un grossissimo ostacolo all’applicazione in fase preventiva – quindi su persone sostanzialmente sane – da parte delle agenzie regolatorie, che non riconoscono l’aging come una malattia. Di conseguenza, non daranno mai il permesso di usare questo tipo di tecnologie su persone sane che vogliono ringiovanire. La mia personale previsione è che i ricchi le useranno lo stesso, i poveri no. Avremo una specie di ‘superuomo’ che ha i mezzi per aiutarsi con le cellule staminali riprogrammate e invece un uomo normale che può ascoltare i consigli del medico. Se già adesso abbiamo una differenza in termini di life expectancy, questo tipo di tecnologia rischia di creare disparità enormi tra ricchi e poveri nel prossimo futuro: è un tema etico che dovremmo affrontare”. Non parliamo di scenari fantascientifici, ma dei prossimi decenni: Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha investito 3 miliardi di dollari in Altos Labs, start up specializzata in riprogrammazione cellulare. “Prevedono un arrivo in clinica delle loro tecnologie fra 20 o 30 anni. Per allora saranno tecnologie curative, che permetteranno di rigenerare le cartilagine dell’osso o il tessuto nervoso, da applicare su soggetti malati e non in fase preventiva”. Chi vorrà (e potrà permettersi) di usare quelle stesse tecniche in fase preventiva, per ‘ingannare’ il tempo e il proprio corpo, dovrà aspettare molto più a lungo secondo il professor Beretta, per via dei problemi regolatori.

Ma prima ancora di pensare al come, forse è il caso di chiederci se siamo davvero pronti a far girare all’indietro le lancette dell’orologio: se potessimo vivere fino a 150 anni, vorremmo farlo?