Cinema

Il Problema dei Tre Corpi, 200 milioni di dollari spesi maluccio: il flop Netflix

Spesso è dalla creazione indipendente che nascono fiori, mentre dalla programmazione industriale e preconcetta nascono spesso manufatti incolori. Il problema dei tre corpi è finito subito in questa categoria qui.

di Davide Turrini

200 milioni di dollari spesi maluccio. Il problema dei tre corpi è già, a tutti gli effetti, un mezzo flop mondiale della ditta Netflix. Ne parlano più che altro in termini allarmistici i siti economici statunitensi più che quelli di cinema tout court per lo splendore dei contenuti. E questo è un dato di fatto incontrovertibile. In Italia il lancio pubblicitario è stato piuttosto aggressivo, una sorta di wellesiano terrore spammato tra un sempiterno ritardo dell’alta velocità e un caffè a 2 euro tra i pannelli delle stazioni dei treni (“siete insetti”, lampeggiavano le scritte). Poi sui social ci si sono messi Roberto Giacobbo, Chiara Valerio e Stefano Rapone a fare una specie di teatrino del sapere demenziale e tutto è finito nello sgabuzzino. Niente hype alla Stranger Things, insomma, ma soprattutto una distesa di crateri creativi che si allarga puntata dopo puntata, sequenza dopo sequenza, minuto dopo minuto.

Ricordiamo che Il problema dei 3 corpi sigla oltretutto la campagna acquisti Netflix più gloriosa di sempre, qui sulla HBO, proprio in termini di ideazione di contenuti. I creatori di Il trono di spade, David Benioff e D.B. Weiss, sono stati messi sotto contratto dal colosso dello streaming come fossero i gemelli del gol seriale e gli è stato sbattuto sotto al naso il celebre romanzo di fantascienza dello scrittore cinese Liu Cixin (in Italia edito da Mondadori nel 2017). Non più “facce ride”, insomma, ma fateci entrare nella storia. Sentiero impervio, peraltro, che, come insegna la storia dell’industria hollywoodiana o delle tv, si inerpica all’improvviso all’apice del successo attraverso sorprese e fuori programma. Star Wars, per dirne uno, fu una produzione chiavi in mano a George Lucas e compagnia che poi si fece florido e imperituro franchise.

Insomma, spesso è dalla creazione indipendente che nascono fiori, mentre dalla programmazione industriale e preconcetta nascono spesso manufatti incolori. Il problema dei tre corpi è finito subito in questa categoria qui. Non solo perché la smania di sorprendere attraverso la fantascienza sta diventando uno sport comune come la corsetta attorno all’isolato, ma perché la tematica “non siamo soli nell’universo” non è più elemento perturbante ed eversivo come poteva risultare 50 anni fa. Capita. Anche perché non avrebbero avuto così successo popolare tutte le narrazioni di saggistica sulla fisica e il cosmo (Rovelli, Labatout) e “il paradosso di Fermi” non verrebbe snocciolato con il sorrisino del “te l’avevo detto” nei salotti bene dell’oramai ex fisica positivista e agnostica. Il problema dei tre corpi ha poi un altro paio di problemi produttivi e creativi di non poco conto: non mostra alcuno sforzo di costruzione visiva di un “world building” originale, accattivante, malizioso (pensate a cosa sono gli alieni e come comunicano con gli umani in Arrival di Villeneuve) e ancor di più sprofonda in un anonimato di facce, espressioni, recitazioni da teen drama (o che perlomeno non giustificano le elevate spese di budget). Le linee spazio temporali in scena sono tre.

La prima, e più impregnata del romanzo di Liu Cixin, è ambientata nel 1967 in Cina dove la rivoluzione culturale di Mao sta mietendo sangue e vittime, ma tra gli alti monti della Mongolia c’è un base – la Costa Rossa – dove alcuni scienziati stanno lavorando ad un progetto militare segreto in cui provano a contattare intelligenze aliene, inviando segnali nello spazio. La seconda nella Londra di oggi dove cinque fisici ex compagni ad Oxford (una ha inventato nanoparticelle invisibili che tagliano la materia più dura; altri due lavorano in un centro di accelerazione delle particelle; un altro fa l’insegnante; e un altro ancora è diventato un riccone) si ritrovano a dover capire cosa c’è dietro al suicidio di una ex compagna scienziata, al suo caschetto che indossato collega in altre dimensioni, a strani incontri ravvicinati e visioni apocalittiche che permeano la fase conscia della giornata di molti di loro. Infine c’è il bordone narrativo del videogame: forse il punto più basso della CGI in post produzione degli ultimi vent’anni. L’aria che si respira anche solo nel ricomporre i pezzi in fase di montaggio, e di equilibrio degli spazi concessi all’uno o all’altro contesto storico, dimostra come il progetto generale sia disomogeneo e piatto, scientificamente bulimico e superficiale, drammaturgicamente randomico e aleatorio. Qui non si tratta di credibilità o attendibilità rispetto alla legge o al criterio fisico mandati al macero dagli eventi raccontati (ci sta, per la suspense), di critica alla soluzione di scrittura finale che non spoileriamo (c’entra comunque il contatto tra terrestri e alieni), ma di vera e propria mancanza di fascino nel rendere questo universo edibile e godibile con gli occhi e l’anima. Pensare che una seconda stagione è già prevista (ma non confermata) e che Beinoff e Weiss hanno spiegato che ne servirebbe una terza, fa capire del naufragio che si appresta a vivere Il problema dei tre corpi appena uscito e già in via di dissoluzione.

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