Il caso dell’installazione Venere di Stracci – andata in fumo nel luglio del 2023 – è già arrivato al processo d’appello in cui è imputato Simone Isaia, il senza fissa dimora di 33 anni accusato e già condannato in primo grado a 4 anni. Per lui già un mese dopo il rogo – che suscitò polemiche e indignazione – erano state raccolte migliaia di firme perché tornasse libero, invocando un aiuto per quello che veniva considerato un fragile.
Per Simone Isaia è sceso in campo l’arcivescovo di Napoli, monsignor Domenico Battaglia che ha scritto una lettera alla Corte d’appello di Napoli: “Mi domando dove ero, dov’era la mia Chiesa, dov’era la comunità sociale” scrive il presule che si dice pronto a “riparare” dichiarandosi disponibile “a seguire Simone in percorsi di accoglienza, supporto psicoeducativo e riabilitazione“, mettendo al servizio di tali percorsi “le energie più belle e competenti della Chiesa napoletana”.
L’arcivescovo di Napoli sottolinea che la lettera non è “un’intromissione indebita volta a influenzare il suo giudizio” poiché lo scopo di Battaglia “come cittadino e vescovo, è unicamente quello di sottolineare come il giovane in questione sia anzitutto una persona in difficoltà, fortemente fragile, vissuto per diverso tempo in condizioni di marginalità sociale”. Quello di monsignor Battaglia è il più accorato degli appelli alla clemenza ma non certo il primo. A precederlo sono stati in molti, anche il garante delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello che ha auspicato “un ridimensionamento della sentenza di primo grado (quattro anni di carcere e una multa di 4mila euro) e percorsi di accoglienza e di supporto psicologico”.