I bandi per accedere ad una casa popolare e le graduatorie dovrebbero essere per Governo, Regioni e Comuni, l’elemento principale per quantificare il fabbisogno e agire di conseguenza, definendo politiche abitative pubbliche, che per essere tali dovrebbero, in particolare, fornire stabilità abitativa per le persone con redditi bassi o precari e in disagio abitativo.
Al contrario si verifica che non c’è relazione tra fabbisogno accertato con i bandi e le politiche abitative attuate, ovvero le risposte che concretamente vengono date alle famiglie in graduatoria.
Il Ministro Salvini, non a caso, il 25 settembre 2023 dichiarava “Penso a un Piano casa per la borghesia, non per gli studenti attendati davanti al Politecnico”. Dando poi seguito a ciò con l’apertura del Tavolo per definire il Piano casa, escludendo i sindacati inquilini con grande presenza di operatori economici. Un Piano che non a caso sembra rivolgersi a tutti, meno che alle 6-700mila famiglie nelle graduatorie.
Anche dalle Regioni e dai Comuni si segnala la “disattenzione” sul fabbisogno abitativo. Alcuni esempi: in Toscana un rapporto della Regione del 2023 afferma che, nel corso del 2021, sono state presentate 20.814 domande per gli alloggi Erp. Oltre 17.000 sono state accolte. Nel 2022 le assegnazioni, in Toscana, sono state 1.029, solo +2% rispetto al 2021. Comunque poche.
A Milano nel 2022 sono state assegnate 1.714 case popolari su, dicono i sindacati inquilini, 17.000 richiedenti. Mentre la Regione Lombardia sta di volta in volta togliendo quote di case popolari per assegnarle, ad esempio, a lavoratori della giustizia e ad altre tipologie di lavoratori.
A Roma, nel 2023, sono state assegnati 405 alloggi, 280 a famiglie in graduatoria e le altre 125 per il passaggio da casa a casa per famiglie sotto sgombero. A Roma in graduatoria ci sono oltre 15.600 famiglie.
I comuni e il governo, invece di usare bandi e graduatorie come riferimento per un aumento dell’offerta di alloggi di edilizia residenziale pubblica, avviano, al contrario, programmi sostanzialmente fondati su intervento privato, che oggettivamente può offrire una risposta solo a famiglie con un reddito adeguato, per affitti cosiddetti “moderati”, affitti comunque insostenibili per le famiglie in graduatoria che mediamente hanno 20.000 euro di Isee complessivo famigliare.
A Padova nei giorni scorsi è stata pubblicata la graduatoria definitiva: 1800 le famiglie presenti, un +450 rispetto al 2022, forse 350 gli alloggi da assegnare, eppure ci sono oltre 1.300 alloggi chiusi. Per caso il comune pensa di riadattarli per assegnarli? Macché: pensa di venderli, come denunciato da Unione Inquilini. Viene così meno il ruolo e la funzione di bandi e graduatorie, che rassomigliano sempre più a parcheggi virtuali sociali nei quali si attua un imbroglio, una illusione: che Governo, Regioni e Comuni si prendono cura di te e si prodigano per garantire alle famiglie un diritto, che, nei fatti, è in gran parte inesigibile.
A questo punto, non solo per gusto della provocazione, propongo al ceto politico che proceda nella abolizione di bandi per accesso a case popolari e delle relative graduatorie comunali. Oggi non servono a nulla, e sono diventati la fotografia dell’abbandono da parte della politica di una idea di intervento pubblico nel settore abitativo. Men che meno servono se si vogliono attuare politiche liberiste.
Così oggi, al di là delle briciole di assegnazioni che vengono fatte, in realtà i bandi e le graduatorie rappresentano solo la foglia di fico del ceto politico e amministrativo per sostenere l’illusione di una finta e ipocrita sensibilità sociale. In quasi nessun Comune le politiche abitative sono pensate per rispondere prioritariamente al fabbisogno reale, quello di famiglie nelle graduatorie, sfrattate e in povertà assoluta.
Mi sono convinto che il ceto politico ritenga che la precarietà abitativa non sia affrontabile se non per quote residuali e caritatevoli. Che senso ha, quindi, impegnare nei singoli comuni migliaia di famiglie a partecipare al bando per accedere ad una casa popolare? Spendere soldi e tempo? Perché impegnare gli uffici comunali per ore e ore nel vaglio delle domande, per elaborare una graduatoria provvisoria? Ricevere ricorsi e impegnare ulteriormente gli uffici comunali per ore e ore per una graduatoria definitiva nella quale parcheggiare le famiglie per decenni? Che senso ha emanare bandi per poche case, ai quali arrivano migliaia di domande?
Tutto questo circo è offensivo per le famiglie che vi partecipano. Una grande bolla ipocrita, perché il ceto politico in realtà non definisce o finanzia programmi conseguenti di aumento di case popolari. Fa esattamente il contrario; dismissioni di case popolari, valorizzazioni, appalta le politiche abitative a privati e operatori economici per realizzare finto social housing, che ha costi “moderati” degli affitti, ma per le famiglie nelle graduatorie inaccessibili.
Si può dire basta? Rappresenterebbe un atto di dignità politica e di rispetto delle persone nonché di coerenza liberista, se a questo punto si abolissero i bandi per l’accesso ad una casa popolare e la decadenza delle graduatorie. Sarebbe più rispettoso ed etico che l’intero ceto politico si assumesse per intero la responsabilità di evitare di mantenere in vita forme illusionistiche di accesso al diritto alla casa che non intende attuare.
L’alternativa? C’è! Si riprenda in mano un percorso di politiche abitative pubbliche che prioritariamente risponda al fabbisogno reale e certificato dai comuni, appunto, quello certificato da bandi e graduatorie.