Si avvicina il giorno delle elezioni e in Messico non si ferma la violenza. Il sindaco di Churumuco, Guillermo Torres Rojas, e Gisela Gaytan, esponente del partito Movimento per la rigenerazione nazionale (Morena) nonché candidata sindaca a Celaya, sono stati ammazzati. Storie diverse che si inseriscono in un quadro unico che secondo il centro studi Integralia da settembre 2023 a febbraio 2024 ha avuto 182 “incidenti” di violenza politica che hanno colpito 238 persone. Ogni giorno 1,3 persone legate alla politica rimangono vittima di aggressioni. Lo studio di Integralia è solo una fotografia dei numeri gravi e pesanti del Paese che verrebbero confermati anche da Data Cívica, un’associazione civile che si identifica come femminista e si dedica all’analisi dei dati.

Anche loro, nell’ultimo rapporto, denunciano che – solo tra gennaio e febbraio – sono state uccise dieci persone coinvolte nelle elezioni. L’organizzazione Laboratorio Electoral ha documentato 50 omicidi legati alle prossime elezioni. Dato che già oggi supererebbe i 43 omicidi che avevano insanguinato il percorso elettorale nel 2018. Il governo messicano ha riconosciuto l’omicidio, ad oggi, di 15 tra candidati e candidate e di aver ricevuto più di 100 richieste di protezione per possibili violenze che potrebbe subire chi ha deciso di candidarsi secondo quanto dichiarato da Rosa Icela Rodríguez, segretario per la Sicurezza e la Protezione dei cittadini.

Organizzazioni e governo messicano non sono, quindi, d’accordo sui dati della violenza elettorale ma certamente convergono nella denuncia di quanto sta accadendo. La violenza omicida e criminale si fa forte e visibile attorno alle consultazioni locali. Infatti il 2 giugno si voterà per scegliere chi sarà la presidentessa della Repubblica del Messico, alcuni governatori statali e tantissimi sindaci. Non sorprende quindi che a essere colpiti siano anche uomini e donne di Morena, il partito del presidente Lopez Obrador. Morena, che è nato come un movimento politico e non un partito, governa oggi in 21 Stati e ha centinaia di sindaci. L’economista Diego Castaneda in un’intervista all’edizione messicana del Pais ha spiegato: “La violenza è diventata un meccanismo di mobilità sociale in Messico, motivo per cui molti giovani si rivolgono alla criminalità organizzata. Vista la grave situazione possono morire, possono trovarsi rapidamente in una situazione economica peggiore e quindi accettano il rischio. Penso che questo sia possibile perché siamo un Paese molto diseguale, con così poche opportunità, il che rende una strategia praticabile affiliarsi al crimine. Costruendo una società più egualitaria vedremmo che ci sono meno persone che scelgono questa strada, perché ci sarebbero altri percorsi meno rischiosi che offrirebbero mobilità sociale”.

Questa fotografia congiunturale spiega anche perché le elezioni locali sono così “attraenti” per i criminali: la gestione della polizia locale, dei fondi pubblici e la possibilità di aver vantaggi e facilitazioni nell’apertura di imprese economiche renderebbe il ruolo di sindaco importante. La commistione ramificata, complessa e a volte difficile da comprendere, tra economie legali, illegali e istituzioni fa si che lo scontro politico sia attraversato da quello criminale. Una condizione che si è creata negli anni e che si è velocizzata certamente dall’omicidio di Colosio nel marzo del 1994. La disuguaglianza economica, la discriminazione di popoli originari e poveri, l’assenza di politiche sociali e l’uso della forza di Stato – con annessa impunità per polizie, militari, e gruppi paramilitari – hanno pian piano “svalutato” il valore della vita in Messico. Si uccide per pochi pesos, per sgarri, per risolvere contenziosi su campi e proprietà, per rubare o per togliere di mezzo avversari politici.

Una commistione drammatica più culturale che politica, sulla quale l’attuale governo – al netto delle promesse – non è riuscito a influire in maniera positiva dando sempre più potere all’Esercito. E così anche la creazione della Guardia Nazionale è diventato elemento di polemica. Basti pensare che solo qualche giorno fa il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomè de Las Casas di San Cristobal ha denunciato che nello scontro a fuoco tra gruppi criminali e la Guardia Nazionale a Niños Héroes, nel Chiapas, costato la vita a 25 persone, sono state uccise e ferite anche persone che stavano aspettando un mezzo pubblico. La violenza in Messico è sistemica, e così attraversa anche la politica, ed è una forma di governo del territorio. In questo quadro spesso si tende a raccontare il Paese, anche grazie ad una complice narrativa di chi sta dentro alla macchina statale, come una “narco-democrazia”, un qualcosa che tende ad assolvere politica, Stato e forze di sicurezza. Anche davanti all’omicidio di Gisela Gaytan Vicente Sánchez, esperta di sicurezza e politica, ha dichiarato: “È sempre più chiaro chi esercita il potere reale nei territori dominati dalla criminalità organizzata”.

Ma la dinamica è più complessa e il crimine organizzato è tra gli attori protagonisti, ma non l’unico. Se è vero che spesso i gruppi criminali si infiltrano nella politica, a volte succede che la politica o il potere economico si affidi ai gruppi criminali per far quello che lecitamente non può essere fatto. E ci sono diverse inchieste che raccontano anche di una promiscuità tra forze armate e crimine organizzato: il caso più eclatante è stato l’arresto del generale Cienfuegos. Tra chi prova a denunciare le ambiguità di rapporto tra politica e crimine organizzato c’è la giornalista Marcela Turati che nel suo ultimo libro racconta della sparizione di 72 migranti. All’El Economista Turati ha detto: “Cerco di spiegare come, in molti casi, siano le stesse autorità e i pubblici ministeri, in collusione con i diversi poteri, a impegnarsi per nascondere la violenza e far sparire le persone scomparse”.

E c’è anche Oswaldo Zavala, professore di letteratura e cultura latino alla City University di New York, che studia il fenomeno criminale attuale e storicizzandolo. Per Zavala, in una recente intervista per Caras y Caretas, “nel nostro continente, il narcotraffico non è il principale generatore di violenza, ma piuttosto il pretesto utilizzato per legittimare la violenza militare, il controllo sociale delle comunità precarie, l’espropriazione territoriale e il saccheggio delle risorse naturali. In Messico, l’esperienza della violenza si è radicalizzata quando l’esercito ha iniziato a intervenire. Da quel momento in poi, il discorso ufficiale si è concentrato sulla colpa del narcotraffico. Ma la realtà è che il Paese è attualmente sotto il controllo dell’esercito, una macchina assassina ben oliata con uno dei più grandi bilanci pubblici del governo federale. Stiamo vivendo uno sterminio in nome della ‘guerra alla droga’. Ora sappiamo, con dati ufficiali, che le principali vittime di questa era di militarizzazione anti-droga sono soprattutto giovani poveri, scuri e senza istruzione, nati e morti ai margini delle principali città messicane”. E così “c’è chi dice no”.

In Chiapas, uno degli stati dove la violenza sta esasperando la popolazione, nel municipio di Pantelhò non ci saranno le elezioni il 2 giugno. Sfruttando alcune leggi strappate, se pur ritenute insufficienti, dalla rivolta zapatista, la comunità tzotzil ha deciso di rifarsi ad usi e costumi locali proclamando un proprio consiglio municipale proprio per evitare che con la scusa elettorale la violenza criminale torni a infestare il territorio com’è stato negli ultimi anni.

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