C’era una volta la critica teatrale… E oggi? Esistono ancora i critici naturalmente ma la critica teatrale, come funzione culturale socialmente riconosciuta, sembra tramontata da un pezzo. La sua ultima età d’oro ha coinciso non casualmente con gli anni Sessanta e Settanta, in particolare quelli a cavallo del ’68: un periodo incredibilmente vivo in teatro e fuori, pieno di utopie, passione civile e politica, attese palingenetiche, radicalità estetica e ideologica, prima che la violenza della lotta armata cancellasse per sempre ogni possibilità di cambiamento reale della società italiana.
In quegli anni il teatro visse una stagione fiammeggiante, irripetibile, con epici scontri fra difensori del vecchio e sostenitori del nuovo, mentre si affermavano i protagonisti della prima generazione della neoavanguardia: da Carmelo Bene a Carlo Quartucci, da Rino Sudano a Leo De Berardinis e Perla Peragallo, da Giuliano Scabia a Mario Ricci.
Il nuovo teatro si presentò ufficialmente nel giugno del ’67 con un convegno a Ivrea, anticipato da un manifesto collettivo apparso sulla rivista Sipario nel novembre precedente. Le differenze e le fratture che emersero anche chiassosamente nelle giornate del convegno anticiparono il fallimento, negli anni successivi, dell’idea, forse velleitaria, di dar vita a un movimento per un vero e proprio cambio di sistema nel teatro italiano. Un cambio, sia detto en passant, che anche nei decenni successivi è sempre stato disatteso.
C’è, fra i critici teatrali di allora, una figura che ha incarnato forse meglio di tutti lo spirito di quei tempi, nel bene e nel male. Parlo di Edoardo Fadini, scomparso nel 2013, e di cui un corposo volume recente raccoglie tutti gli scritti (Scritti sul teatro. Interventi, recensioni, saggi, a cura di Armando Petrini e Giuliana Pititu, Cue Press). Collaboratore de L’Unità, Rinascita e Il Contemporaneo ma anche di Sipario, fondatore di riviste di breve durata che hanno tuttavia lasciato il segno (Teatro, Fuoricampo), Fadini fu fra l’altro l’organizzatore del citato raduno di Ivrea e del controverso, pionieristico esperimento di decentramento tentato a Torino nel ’69-70 dal Teatro Stabile, con una équipe guidata da Giuliano Scabia; infine fu direttore nella stessa città del Cabaret Voltaire, dal ’75 al ’94.
Visionario e polemico, talvolta fino alla faziosità, ma sempre con grande onestà intellettuale, Fadini si batté a lungo con tutte le forze per l’avvento di un teatro che riuscisse ad andare oltre il consueto, ristretto circuito di fruizione borghese e potesse rappresentare uno strumento di formazione culturale e civile per i vasti strati sociali che ne erano stati sempre esclusi.
Tuttavia non amava il teatro politico propriamente detto, perché riteneva che le contraddizioni laceranti della società capitalistica, che allora si credeva ancora di poter abbattere, non fossero da denunciare con spettacoli impegnati, ideologici, ma andassero fatte proprie dagli artisti, cioè incarnate e trasformate in contraddizioni linguistiche, espressive, produttive, organizzative anche. Ecco perché a Dario Fo e Nuova Scena egli preferì sempre Bene, Aldo Trionfo e de Berardinis, e poi Carlo Cecchi, per limitarci ai più rappresentativi.
Al tempo stesso, negli anni caldi prima e dopo il ’68, Fadini fu tra quelli che si batterono con più decisione per una trasformazione radicale degli Stabili, proponendo anche forme di autogestione dal basso e mettendo così spesso in difficoltà il PCI, il suo partito. Il suo sostanziale abbandono della critica militante (ma non della scrittura: si veda la sezione finale del volume, con i contributi dall’87 al 2006) alla metà degli anni Settanta può essere letto anche come una presa d’atto del fallimento delle istanze di rinnovamento profondo della nostra scena per le quali si era impegnato senza risparmio.
Ci riprovò come gestore del Cabaret Voltaire, che diresse a Torino per quasi vent’anni (tenendo a battesimo nuove realtà, a cominciare da Teatro Settimo di Gabriele Vacis), con una generosità non sempre oculata. Ma questa è un’altra storia.