Politica

Ilaria Salis, certa destra gioisce a vederla in catene. Non è stato così per i loro condannati

di Leonardo Botta

Fiumi di bava si secernono in questi giorni in Italia da chi gode come un riccio alla vista di Ilaria Salis “ospite” delle carceri ungheresi e incatenata con ceppi e manette mentre viene tradotta in tribunale con l’accusa di aver pestato, insieme con altri attivisti (o estremisti, fate voi) di sinistra, alcuni antagonisti di destra. Ad accusare la maestra lombarda sarebbero alcuni video in cui vengono ripresi scontri tra manifestanti, oltre a un manganello rinvenuto nel suo zaino (il cui possesso è stato un po’ goffamente giustificato dall’interessata con esigenze di “difesa personale”); elementi rispetto ai quali occorrerebbe attendere l’esito del processo per riscontrare eventuali sue responsabilità.

Invece pare che, in questo caso, politici, media e supporter di centrodestra abbiano già chiuso le indagini preliminari, celebrato il processo ed emesso le sentenze di primo grado, appello e Cassazione. Dunque, il sentimento patriottico dei nostri amici nazionalisti, che così lodevolmente si era manifestato quando si trattava di riportare in Italia i marò o Chico Forti, questa volta pare essersi sopito: il principio di presunzione d’innocenza, per anni legittimamente sbandierato dai conservatori italiani prima berlusconiani e oggi salvin-meloniani, sfuma quando questo sacrosanto concetto dello stato di diritto dovrebbe applicarsi a una esponente della sinistra radicale.

Così, mentre i garantisti a targhe alterne sbraitano contro la custodia cautelare praticata nel nostro paese, e magari se la prendono pure con qualche sindaco “illiberale” che ti blocca l’automobile con le ganasce, non si scandalizzano se le ganasce finiscono ai piedi di un essere umano. Anzi, per fare il controcanto alle immagini ungheresi rispolverano quelle di repertorio, bruttissime, che immortalavano Enzo Tortora ed Enzo Carra in manette, il primo perché ingiustamente accusato di collusione con la camorra, il secondo per un filone d’inchiesta di tangentopoli: gioverebbe magari ricordare che, tra chi sosteneva l’azione della magistratura ai tempi di Mani Pulite, c’erano il Movimento Sociale Italiano (antenato di Fratelli d’Italia) e la Lega (un parlamentare della quale sventolava orgogliosamente il cappio in Parlamento).

Per intenderci: che la Salis non sia persona così mite e tranquilla lo lasciano intendere le condanne a lei comminate in passato per lancio di petardi e resistenza a pubblico ufficiale. E non ho difficoltà a esternare qualche dubbio sull’idoneità di una persona con questo casellario a ricoprire incarichi di educatore; per cui la magistratura ungherese ha il diritto/dovere di appurare le sue eventuali responsabilità penali e, laddove provate, infliggerle le conseguenti pene (magari da scontarsi in Italia dopo procedura di estradizione prevista dai trattati internazionali, vista la non eccessiva affidabilità del sistema giudiziario che vige nel paese di Orban, pur componente di quell’Unione Europea che vigila sul rispetto dei diritti umani nei paesi membri, Italia compresa). Ma da qui a gioir per scene che la immortalano legata come Hannibal “the cannibal” Lecter in un palazzo di giustizia, ce ne vuole.

Così è la vita. Se sei un esponente politico condannato con sentenza passata in giudicato per corruzione o frode fiscale, i cuori dei commentatori amici grondano di sangue per le “inumane” pene che ti vengono inflitte (tipo qualche giorno o mese di carcere, o un breve periodo ai servizi sociali – vedi i casi di Berlusconi, Formigoni, Previti et similia) al punto da essere pronti anche a ricorrere alle corti di giustizia europee. E se sei un attivista di destra (alias Ignazio La Russa) che in gioventù passa il suo tempo a scontrarsi con le forze dell’ordine e con gli avversari, stai tranquillo che prima o poi ti faranno presidente del Senato. Se, viceversa, sei una maestrina di sinistra che parrebbe essersi macchiata della stessa colpa, devi buttare il sangue in carcere (e che mettessero via la chiave!) senza nemmeno passare per una sentenza.

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