La mia ultima vera volta a L’Aquila è stata tre anni fa, in momenti diversi. Vi andai in primavera per una serie di interviste per un articolo a cui stavo lavorando. Vi tornai, a più riprese, d’estate, per i concerti di Emir Kusturica (che intervistai proprio per Il Fatto) e Samuele Bersani (che si professò rapito dalla sua bellezza riconquistata). Poi per assistere alla Perdonanza Celestiniana, che tornava nel suo formato semi-abituale dopo l’anno nero del fermo Covid.
Anche io nel mio piccolissimo, come il cantautore romagnolo, rimasi colpito dagli effetti appariscenti della ricostruzione. A parte qualche lavoro in corso, il centro storico sembrava restaurato magnificamente e i locali e le boutique storiche avevano rialzato le serrande. Riaprivano musei, teatri e una buona porzione delle cento chiese, a cominciare dalla basilica di San Bernardino (con tanto di Porta Santa). Si rivedevano studenti in giro, ed era già mezzo boom turistico. Molti cittadini erano tornati a viverci rientrando dalle “new town”, e non solo nelle strade sotto i riflettori del salotto urbano: le stime oggi ci dicono che la ricostruzione privata (intesa come riconsegna delle case) è arrivata al 75% e in centro sono stati ricostruiti otto palazzi su dieci.
Restavano da risolvere problemi negli angoli più nascosti, e soprattutto accelerare la rinascita abitativa e demografica nei 56 paesi del cosiddetto “cratere”. Alcuni dei quali non hanno tuttora cantieri in azione. Ma la svolta pareva lampante. Erano trascorsi 12 anni da quella notte del 6 aprile 2009, allora, da quelle 309 vittime innocenti. Ora ne sono passati quindici: una piccola eternità. Ricordo nitidamente tutte le fasi di questa drammatica vicenda, e non solo perché sono abruzzese e ho tanti amici e conoscenti che si sono salvati per miracolo. Lo shock collettivo iniziale, la speranza e lo sforzo di dignità della popolazione, l’illusione e la disillusione, la solidarietà del volontariato per lo più giovanile e il cinismo abnorme di certa genia tricolore.
I costruttori senza scrupoli, come chi avrebbe dovuto controllarli. Ricordate le intercettazioni telefoniche sintomatiche del malaffare pseudo-imprenditoriale plasticamente in atto, quelle risate grasse e sguaiate di quei due che si rallegravano fiutando pingui bottini all’orizzonte già pochi minuti dopo la botta devastante? E i miserabili resti della Casa dello Studente, squassata e memento all’ipocrita scelleratezza umana; e gli accrocchi di mattoni cariati ancora virtualmente impregnati di sangue, noncuranti di magnitudo e scale Mercalli. Il progetto c.a.s.e., che venne sbandierato da Berlusconi a reti unificate; il G8 e i potenti del mondo che promettevano mirabilie, salvo poi; le macerie a tonnellate, la zona rossa perpetua e le migliaia di sfollati negli hotel e nelle pensioncine della costa.
Ricordo il lungo sciame sismico che precedette il fatale scoccare delle 3.32 del 6 aprile; ricordo quella “Commissione Grandi Rischi” che scansò ogni misura straordinaria o di semplice precauzione, consigliando anzi alla gente di restarsene a dormire a casa propria. Mentre brindiamo per la nomina de L’Aquila a capitale italiana della cultura 2026, tutte queste cose non dimentichiamole mai.