“Non possiamo parlare di inclusività, quando noi che dobbiamo includere i bambini siamo i primi esclusi: ogni volta che si parla del personale della scuola noi siamo fantasmi”. Come dare torto ad Alessandro, 36 anni, professione Operatore Educativo per l’Autonomia e la Comunicazione (Oepac), come lo chiamano a Roma? I fatti sono dalla sua. Prendiamo la cronaca: ha fatto molto discutere nei giorni scorsi il caso della scuola di Ladispoli, dove un bambino iperattivo di 6 anni era stato sospeso per “dare un segnale” visto che, secondo il preside, “semplicemente la famiglia ritiene la scuola un babysitteraggio e se ne infischia del fatto che altri 21 bambini non stanno imparando a leggere e scrivere a causa della situazione della classe”. Prima ancora a tenere banco era stato Ernesto Galli Della Loggia, con un intervento in due puntate sul Corriere della Sera dove si leggeva, tra il resto, che “la vera sostanza dell’inclusione in pratica significa la semplice permanenza in aula dell’alunno disabile, non accompagnata in realtà da alcun intervento significativo che vada al di là della suddetta permanenza”.

In nessuno dei due casi, che pure sono stati a lungo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, né i protagonisti né i comprimari e neppure buona parte dei commentatori, hanno fatto più di un vago cenno alla figura professionale che – con gli insegnanti di sostegno – dovrebbe essere la chiave di volta del sistema, che è appunto quella di Alessandro. La denominazione più comune fino a poco tempo fa era Aec, che sta per Assistente Educativo Culturale, mentre ora a Roma li chiamano Oepac, a Genova Ose (Operatore socio educativo) e a Palermo Assistente all’Autonomia e alla Comunicazione dei Disabili, in linea con la legge 104 del 1992 che li ha istituiti parlando di “assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale” che deve obbligatoriamente essere fornita dagli enti locali.

E qui casca l’asino, non solo perché spesso e volentieri le famiglie devono lottare con le unghie e con i denti per avere l’assistenza anche quando è (finalmente) certificata e dovuta. Ma anche perché quando ci sono queste figure – circa 70.000 in tutta Italia – non fanno parte del personale scolastico, anche se in pratica sono l’alter ego del bambino e hanno l’obiettivo di creare un ponte tra il disabile e la classe. Essendo in carico ai Comuni, sono dei corpi estranei nella scuola, con tutto ciò che ne consegue. Per esempio si tratta di lavoratori che i Comuni spesso subappaltano a delle cooperative che a loro volta, quando va bene, fanno contratti da 8 euro l’ora con uno stipendio spalmato su 9 mesi l’anno e un numero di ore settimanali assegnate facilmente modificabile.

Tecnicamente è un part time ciclico verticale che segue il ciclo della scuola: alla chiusura dell’anno scolastico in busta paga vengono segnate zero ore fino a settembre e poi si riparte. Così non si perde il posto, ma non si prende neanche la disoccupazione. E la coperta dell’Inps, un bonus di 550 euro spalmati su tre mesi, è decisamente corta. Senza contare che durante l’anno il numero delle ore può cambiare anche da un giorno con l’altro.

Per esempio a Roma a un certo punto quest’inverno era stato previsto che se il bambino non fosse arrivato a scuola al mattino, l’operatore sarebbe dovuto tornare a casa perdendo la giornata di lavoro senza alcun preavviso. “Questo per me è caporalato ed è già lavoro a cottimo. Nessuno si prende un impegno nei miei confronti: mi alzo, mi vesto e vado. Arrivo, non c’è lavoro, avviso la coop e torno a casa. Io ci sto, ma mi paghi 20 euro l’ora non 8″, sintetizza Giovanni, veterano del mestiere che ripercorre le tappe della vicenda che ha visto gli Oepac romani manifestare più volte sotto le insegne della Cub. “Siccome c’è questo bisogno ed è intermediato dalle coop, che sono delle aziende e devono guadagnare, loro prendono 24 euro all’ora e a me ne vengono 8. La scuola a Natale chiude e noi non veniamo pagati. Da giugno a settembre idem e io mi devo trovare un altro lavoro, perché avendo un contratto a tempo indeterminato non prendo la Naspi, sono semplicemente congelato, ma le bollette e l’affitto no. Se avessi mutuo o figli non ci starei dentro – racconta -. La Cgil e la Cisl, ma soprattutto la Cgil, non fanno altro che difenderle. Hanno fatto degli accordi un anno fa che fanno sì che la famiglia possa scegliersi la coop che fornisce l’operatore. L’accordo ha difeso molto la cooperativa, ma non chi lavora per la cooperativa: per esempio prima c’era scritto che se il mio ragazzino non viene a scuola, io per i primi due turni vengo pagato lo stesso. All’improvviso dal mese di dicembre nei municipi sono iniziati a mancare i soldi e hanno iniziato a tagliare il servizio nei giorni di assenza del ragazzino, così le cooperative si sono rivalse su di noi dicendoci di tornarcene a casa e ci siamo inalberati”.

La vicenda si è per il momento chiusa con un nuovo accordo che prevede che il municipio non paghi i giorni di assenza del bambino, ma che ai lavoratori sia garantito il rispetto delle condizioni contrattuali. Secondo il comune il margine che le coop hanno (14%) è sufficiente a coprire le assenze e le ore indirette. “Alcune cooperative, però, continuano a fare orecchie da mercante. Altre pagano i giorni di assenza non programmata, ma i giorni di assenza programmata vanno a finire in un monte ore che l’operatore dovrebbe recuperare per le gite e le altre ore indirette – spiegano dalla Cub Scuola -. Resta il fatto che le operatrici e gli operatori non hanno sempre la garanzia della retribuzione e devono essere disponibili a spostarsi o a recuperare le ore, ma moltissimi di loro hanno due o più lavori e/o impegni familiari e quindi non è sempre possibile essere a disposizione…”.

Al netto di quello che succederà alla prova dei fatti, resta il fatto che il mestiere dell’Oepac lo devi proprio amare con tutte le tue forze. Per citare ancora il caso di Alessandro, lui racconta che “il lavoro lo svolgiamo principalmente per amore, poi purtroppo non si vive di sola gloria e anche lo stipendio è una componente importante. Noi con 36 ore settimanali portiamo a casa 1.200 euro al mese quando ci da buono, ma non ci dobbiamo dimenticare che 4 mesi l’anno non percepiamo stipendio e la 13esima è proporzionata ai mesi di lavoro effettivi”. E così lui, come molti altri, si deve cercare almeno un secondo lavoro che gli permetta di svolgere il primo. “Io fino all’anno scorso lavoravo a scuola 36 ore, tre volte a settimana seguivo dei bambini privatamente e la sera facevo le consegne con Deliveroo. Quindi arrivavo a casa alle 11.30/mezzanotte, il tempo di fare una doccia, cucinare, mangiare e più o meno digerire, ti metti a letto all’una e mezzo/due e dopo cinque ore sei di nuovo in piedi”, spiega.

“Trentasei ore nella disabilità sono logoranti, se aggiungi gli altri lavori, si arriva a un punto che sei a un passo dal burn out. Eppure abbiamo un carico di responsabilità non indifferente: credo che sia d’obbligo aumentarci lo stipendio anche per tutti i rischi che affrontiamo. E magari il problema fosse a fine mese, qua non si arriva a metà mese. Non parliamo della vita privata. Se le condizioni resteranno tali credo che questa figura andrà scomparendo”, continua Alessandro. E i ragazzini che fine faranno? Torneranno negli istituti vagheggiati da Galli Della Loggia? “Temo che per i più gravi sarà così”.

Giorgia, 40 anni, due figli piccoli e un affitto di 1200 euro al mese da pagare, racconta amareggiata di aver iniziato a guardarsi intorno dopo 20 anni di onorato servizio. “Mi stanno chiamando dal nord dove mi inquadrerebbero direttamente come d2, mentre qui a Roma siamo d1 (in altre regioni si scende addirittura a c, ndr): è vergognoso per chi ha un titolo di studio definito – spiega -. In alcune regioni del nord è meglio. Friuli, Trentino, Lombardia, l’Emilia, il Veneto: sono regioni in cui la figura dell’educatore è valorizzata, ti danno soddisfazione. Dovremmo essere tutti uguali, invece di avere questo dislivello nazionale. È una situazione veramente denigrante”. A lei hanno ridotto le ore da un mese con l’altro perché il bambino che seguiva ha cambiato scuola. “Con la cooperativa il mio contratto ha subito una riduzione oraria, cioè non c’è stata un’integrazione delle ore perse, ma una riformulazione e una cristallizzazione della diminuzione delle mie ore. Quindi da 28 ore con cui sono partita, sono passata a 15 ore. E già 28 sono poche. Così arriverò a 350 euro al mese”.

E questo bambino che segue tre ore al giorno sta a scuola solo tre ore? “No sta tre ore con me, le altre ore sta con gli insegnanti di sostegno. Io mi occupo dell’inclusione, delle difficoltà sociali, delle sue difficoltà, siano fisiche o psichiche – racconta Giorgia -. Dovrebbe essere un lavoro incentivato a non perderci. Siamo di supporto al bambino, ma anche alla situazione della classe e al docente nel momento in cui c’è una situazione particolare. Lavoriamo sull’inclusione, non possiamo essere esclusi dai processi di gestione della classe come succede nell’ultimo regolamento municipale che ci taglia fuori dal Gruppo di lavoro operativo per l’inclusione (Glo)”.

Ma in pratica cosa fa un Oepac? “Cerco di tenere il bimbo in classe, perché può capitare che l’insegnante ci chieda di uscire, io cerco di coinvolgerlo in quello che stanno facendo gli altri o di proporgli un’attività che lo faccia rilassare e stare bene in classe. Se serve lo accompagno a fare una piccola passeggiata o un gioco o gli faccio fare un lavoro con un altro compagno o con un piccolo gruppo. Ci proponiamo per fare dei progetti sulle attività. Una volta che l’educatore è uscito se ne occupa la scuola, ma la nostra è una figura fondamentale che non merita di essere trattata così. La maggior parte delle volte quando si fa il piano scolastico noi arriviamo prima dei sostegni”, conclude Giorgia.

Lo conferma anche Giovanni, secondo il quale gli operatori esistono “perché un insegnante di sostegno su un ragazzo non potrà mai coprire tutte le ore, fa già 9-18 ore settimanali, non ce la fa a coprire tutte le ore necessarie. E il ragazzino non può stare in classe tutte queste ore con l’insegnante. Io vengo incastrato tra le insegnanti di sostegno. Se il ragazzo è totalmente dipendente o si decide che esce prima da scuola oppure si coprono tutte le ore”. Giovanni guadagna tra i 600 e gli 800 euro al mese, che nella sua zona bastano per pagare una stanza in condivisione e poco più. “Ci sono molte persone che se ne vanno perché non ce la fanno più e chi ne paga le conseguenze sono le famiglie“, commenta.

Alessandro ricorda che a Roma gli Oepac erano dipendenti del comune 20 anni fa. “Poi hanno delegato tutto alle cooperative sociali che di sociale non hanno niente. Se il comune ci prendesse in casa, risparmierebbe anche i due terzi dei soldi – sostiene -. Anche perché è la scuola che ci gestisce, le coop non si capisce cosa facciano. Eppure le pagano dai 20 ai 30 euro l’ora e noi prendiamo 8 euro e qualcosa l’ora, se ci potessero dare 10 euro netti all’ora arriveremmo al lavoro carichi”. Anche se, riconosce, “ci sono delle cose che ci fanno svegliare la mattina: l’amore dei bambini e il rispetto degli insegnanti. Ci sono degli insegnanti che sono lontanissimi dalla disabilità. E ci sono bambini che hanno più bisogno dei loro compagni “certificati” perché i genitori non accettano il problema e non lo affrontano. Cerchiamo di aiutare anche loro”.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

L’assistenza scolastica ai bambini disabili, un compito dei Comuni senza regole e cassa. Mentre si studia il passaggio allo Stato

next