Lo stop alla candidatura di Tonino Gozzi cancella la possibilità di far arrivare alla guida di Confindustria un presidente sanguigno e roccioso, marcatamente decisionista, che interrompa il corteo di animule vagule blandule (o commercianti paracadutati a fare la faccia feroce) alla guida dell’associazione. Operazione che – tra l’altro – ha bloccato una trasfusione di energia nell’organizzazione in agonia; rappresentante di un sistema d’impresa altrettanto agonizzante.
Eppure il leader di Duferco (siderurgia, energia, logistica e molto altro) non significava minimamente un’inversione di tendenza rispetto alla cultura e alla visione associativa. Del resto il tempo di una possibile Confindustria progressista, alla guida dei processi di cambiamento in un’Italia immobilista, zavorrata dalle rendite e guidata dalla consociazione tra corporazioni orientate alla spartizione di un potere capace solo di troncare e sopire, è terminato con la breve stagione dello Statuto Pirelli (1970) e del movimento dei Giovani Imprenditori, messo in pista dal tentativo velleitario di riformare una realtà orientata alla mediazione tra interessi forti (che pesavano e pesano in base ai contributi versati nelle casse associative). Tanto da rendere improponibile in tale sede il democraticismo del principio “una testa un voto”. Non è questo certo il caso di Gozzi, paladino dell’ortodossia perfino con punte di fondamentalismo produttivistico, come quando afferma che la transizione energetica la faranno gli industriali e la finanza d’impresa.
Perché allora questa scomposta corsa a bloccarne l’ascesa, contrapponendogli un (probabilmente abbastanza inconsapevole) candidato conterraneo e ricorrendo – stando ai si dice (e se accertato sarebbe un fatto inaudito) – alle estetiche di contabilità statutaria per operare la necessaria sfoltitura dei suoi consensi? Allora, chi sono gli stoppatori dell’imprenditore a tutto tondo, fermamente convinto che l’industria sia il massimo contenitore di sapere pratico e il supremo promotore di innovazione?
Sono i guardiani del lento declinare nell’insignificanza dell’Aquilotto; i rentier della posizione associativa, nelle due cordate: “i professionisti di Confindustria” e “le serve padrone” della struttura. Due soggetti coalizzati nel quieta non movere et mota quietare, seppure differenti; che galleggiano manovrando il gregge di piccole-piccolissime-micro imprese che costituisce una base risentita e impaurita, orfana della Grande Industria (mentre Duferco grande industria lo è, a tutti gli effetti; e di respiro internazionale).
“Professionisti di Confindustria” sono i personaggi che bazzicano l’associazione a tempo pieno, spesso con gran sollievo dell’impresa familiare, che li ha dirottati a trovare soddisfazioni fuori dai cancelli aziendali. Le Emma Marcegaglia e i Luca Cordero di Montezemolo, per arrivare fino al primo esemplare della specie: il tipografo Luigi Abete (con fratello deputato in quota andreottiana e poi in Federcalcio). Ma anche piccoli imprenditori rampanti, come lo era il varesotto Giorgio Fossa o l’altro grafico Vincenzo Boccia, alla ricerca di prestigio presidenziale tramite poltrona. E poi ci sono “le serve padrone”: alti funzionari che coltivano il proprio orticello, in larga misura immaginario, in barba ai loro datori di lavoro. Un tipo Carlo Calenda, tanto per intenderci: pretenzioso e inconcludente, cresciuto professionalmente al quinto piano del cubo nero di Viale dell’Astronomia, Eur.
Questi signori hanno raggiunto il loro obiettivo sgarrettando Gozzi o hanno consumato nell’operazione gli ultimi spiccioli di credito associativo di cui disponevano?
L’impressione è che nella vicenda abbiano perso un po’ tutti. Perché il presidente di mediazione per il quadriennio 2024-2028 Emanuele Orsini, unico candidato al consiglio generale del 4 aprile scorso, non sembra davvero avere le doti di leadership necessarie per rivitalizzare l’intero comparto produttivo nazionale e guidarlo alla sfida del riposizionamento competitivo nel contesto continentale. Per darsi un ruolo di interlocutore propositivo nel varo dell’indispensabile politica industriale europea.
Sappiamo che promette mirabilie, come si fa sempre ad inizio mandato. Ma le sue credenziali sono abbastanza scarsine: quella di essere un pacioso emiliano e la passata vicepresidenza con Carlo Bonomi, il grossista di prodotti elettromedicali che non ha lasciato la minima traccia del proprio passaggio.