Ci sono molti modi di raccontare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. C’è chi ne ha fatto delle figure quasi mitologiche, chi li ha trasformati in eroi da fumetto o quasi e chi, anche solo scriverlo adesso mi fa gelare il sangue, ha provato a dipingerli come traditori; dello Stato, della magistratura, delle persone che avrebbero dovuto difendere per professione.

Se già è complicato per chi, come me, ha vissuto gli anni del lavoro e delle tragedie di questi due incredibili magistrati, immaginate quanto sia difficile per chi, come i miei figli, è nato molti anni dopo che la mafia aveva ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Il modo migliore, ne sono ancora più convinto dopo aver letto Falcone Borsellino, Dieci anni di Solitudine, il bel libro di Giomaria Monti con prefazione di Franco di Mare (Fabiano Castaldo editore, 225 pagine, 20 euro, disponibile anche con cd audio contenente le letture di Luca Ward e Fabiana Sera e le musiche di Stefano Fonzi) è lasciar parlare i documenti. Quelli veri e verificati, che raccontano la storia, con le sue luci e le sue ombre, ma comunque la storia.

Nel libro sono raccolti documenti importantissimi e si alternano le voci di Maria Falcone, Rita Borsellino, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Ayala e Alfonso Giordano; quelli che, in sintesi, amici di Giovanni e Paolo lo erano davvero, anche quando la mafia ha cercato prima di isolarli, poi di delegittimarli fino a che, sbagliando, li ha uccisi e reso immortali loro ed il loro messaggio.

Quando aveva poco più di 10 anni, Marco fu portato dalla scuola elementare in gita in Sicilia. A noi, genitori di un bimbo così piccolo, sembrava strano che da Milano si spingessero fino a lì e ci chiedevamo cosa mai gli sarebbe rimasto in mente dei templi di Agrigento o delle ceramiche di Caltagirone.

In effetti avevamo ragione, di quello Marco ricorda poco o nulla, se non un gran caldo. Quello che invece ricorda benissimo fu la sosta all’albero piantato in via Notarbartolo a Palermo, l’albero dedicato a Giovanni Falcone. Lui e tutti i compagni si fermarono a lungo, lessero i moltissimi bigliettini lasciati da chi aveva visitato quel luogo prima di loro.
Si fermarono anche in via d’Amelio dove, nella buca lasciata dall’esplosione che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta, la madre del magistrato volle venisse piantato un albero di ulivo proveniente da Betlemme, un simbolo di pace e speranza.

La speranza che un futuro migliore sia possibile grazie a chi, sin da piccolo, impara la differenza fra la giustizia e l’ingiustizia.

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