di Leonardo Botta

Amo la Puglia, quasi quanto la mia Campania. In Puglia passo spesso le mie vacanze (ormai posso dire di conoscerla a fondo, dal Gargano alla punta del Salento). E da molto tempo seguo le sue vicende politiche, direi da quando un suo leader di sinistra, dal linguaggio forbito e fascinoso anche se un po’ “supercazzolato”, Nichi Vendola, diventò inaspettatamente presidente battendo il giovane ma potentissimo uscente Raffaele Fitto. A quando un bravo procuratore antimafia, Michele Emiliano, si affermò sulla scena politica prima come sindaco di Bari e poi come governatore. Fino a quando il suo testimone alla guida del capoluogo pugliese fu raccolto da un appassionato ingegnere già assessore ai Lavori pubblici, Antonio Decaro (del quale imparai a conoscere e ad apprezzare le empatiche dirette social all’epoca del Covid), poi divenuto anche stimato presidente dell’Anci e pronto, dopo il suo secondo mandato di sindaco, a raccogliere l’eredità di Emiliano alla guida della Regione.

Ero (e resto) convinto che l’esperienza pugliese del centro-sinistra restituisca un bilancio positivo: Bari e la Puglia sono oggi, secondo molti osservatori, migliori e più vivibili, sicuramente più legalitarie di quanto lo fossero prima. Ma non è tutto oro ciò che luccica.

Di Vendola ritengo che la parabola discendente politica non sia stata gloriosissima: ricordo la sconcertante chiacchierata intercettata al telefono con Archinà, factotum dell’Ilva di Taranto, nella quale l’allora presidente pugliese rideva con complice gusto del video in cui si mostrava lo stesso Archinà mentre bloccava un giornalista che provava a fare domande scomode al patron Ilva Emilio Riva.

Emiliano, dopo qualche piccolo inciampo come le cozze pelose accettate, da sindaco, da un imprenditore poi finito in guai giudiziari, ha messo in piedi un interessante laboratorio politico grazie al quale in Puglia è riuscito a dialogare e poi governare con il M5S prima che i cinque stelle e il Pd lo facessero su scala nazionale. Ma poi, in questi giorni, gli è cominciato a succedere di tutto intorno: arresti, ipotesi di reato per voto di scambio hanno fatto emergere diverse opacità nella macchina amministrativa del Tavoliere. E lui ci ha messo del suo, con quella tafazziana difesa pubblica di Decaro in cui, sotto gli occhi increduli dei cronisti, raccontava di visite a parenti di boss malavitosi con intenti protettivi nei confronti del suo pupillo.

Le vicende giudiziarie hanno riguardato anche la Bari di oggi, finita sotto l’attenzione dei riflettori per presunte infiltrazioni mafiose, che hanno indotto il ministro dell’Interno Piantedosi ad avviare la procedura di verifica di eventuali condizioni di scioglimento. E pazienza se governo e maggioranza di centro-destra stiano forse provando a speculare su queste difficoltà degli avversari: rientra nel gioco delle parti, soprattutto con le elezioni amministrative alle porte.

Parliamo naturalmente di ipotesi di reato, tutte da dimostrare in indagini ed eventuali processi. E giova comunque ricordare che Emiliano e Decaro sono fino a prova contraria due galantuomini (il primo ha passato anni a combattere la criminalità organizzata, il secondo vive da dieci anni sotto scorta). Resta il fatto che, a mio modesto parere, la vicenda politica della Puglia a guida di centro-sinistra impone una riflessione su quanto il potere logori (con buona pace della buonanima di Andreotti) chi ce l’ha: ricordo che quando, un bel po’ di anni fa, seguii un interessante corso di formazione politica, uno dei relatori citò uno studio nel quale si dimostrava come, nelle regioni italiane, la spesa pubblica prodotta dalle loro amministrazioni (giunte e consigli regionali) aumentasse considerevolmente con il secondo o terzo mandato.

Questo mi rende persuaso che l’ipotesi di eliminare il vincolo del secondo mandato per governatori e sindaci delle grandi città, ventilata da più parti nell’ultimo periodo, abbia l’aria di rivelarsi improduttiva o peggio ancora dannosa.

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