di Domenico Tambasco*
Tra le tante innovazioni introdotte dalla nuova disciplina in materia di whistleblowing (d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24) spicca certamente, per il rilevante impatto sulla generalità dei rapporti lavorativi, quella riguardante i licenziamenti ritorsivi.
Partiamo con il dire che il licenziamento ritorsivo o per rappresaglia consiste nell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta (cfr. Cass. 9 gennaio 2024, n. 741). E’, in poche parole, una delle forme più gravi di licenziamento in quanto si concretizza nella deliberata e strumentale estromissione del dipendente, solitamente in conseguenza dell’esercizio di un diritto da parte della vittima di questa peculiare forma di rappresaglia lavorativa; non di rado, il licenziamento ritorsivo costituisce infatti l’ultimo stadio del mobbing.
Fino a ieri la normativa italiana non brillava per coerenza: se da un lato, infatti, il legislatore riconosceva il massimo della tutela attraverso la reintegrazione “piena” (cfr. art. 18, comma 1 Stat. Lav.; art. 2, comma 1 d.lgs. 23/2015), dall’altro invece il dipendente subiva il carico di un pesantissimo onere probatorio.
A differenza dei “licenziamenti ordinari” per cui vige tutt’oggi l’inversione dell’onere della prova (è infatti il datore che deve provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, cfr. art. 5 L. 604/1966), per i licenziamenti ritorsivi al contrario valeva fino a poco tempo fa la disposizione generale prevista dall’art. 1345 del codice civile. In poche parole, era la vittima della ritorsione a dover provare che l’intento ritorsivo datoriale avesse avuto esclusiva efficacia determinante della volontà di recedere dal rapporto di lavoro: con la conseguenza che ad esempio, nel caso in cui il datore di lavoro avesse licenziato per rappresaglia un lavoratore scegliendo lui e non un altro collega nell’ambito di una pur effettiva procedura di riorganizzazione aziendale (il cosiddetto ‘giustificato motivo oggettivo’), non si sarebbe comunque potuta far valere la ritorsività, dovendosi escludere la possibilità di procedere a un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni alla base del recesso, ossia tra quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (cfr. Cass. 7 marzo 2023, n. 6838). La volontà di ritorsione, quindi, doveva essere unica ed esclusiva, pena l’impossibilità di accedere alla tutela reintegratoria piena.
Dal 15 luglio 2023, tuttavia, il panorama normativo è radicalmente cambiato nel senso di una protezione dalle rappresaglie effettiva e non solo “sulla carta”. Si tratta, come accennato all’inizio, di una vera e propria rivoluzione che stranamente, almeno fino ad oggi, è passata quasi del tutto “sotto silenzio”. In questo caso il legislatore ha sprecato poco inchiostro, essendo stato sufficiente modificare l’art. 4 della legge 604/1966 (attraverso l’art. 24, terzo comma d.lgs. 24/2023) con l’inserimento tra i licenziamenti discriminatori vietati anche di quelli “conseguenti all’esercizio di un diritto”: il riferimento, pare evidente, è alla maggior parte dei licenziamenti di natura ritorsiva.
Le conseguenze sono di non poco conto. Oggi infatti, nel caso di recesso per rappresaglia, la vittima potrà beneficiare dell’onere probatorio attenuato e del risarcimento del danno dissuasivo previsto dalla più rigorosa disciplina antidiscriminatoria di derivazione comunitaria (cfr. art. 28 d.lgs. 150/2011), restando esclusa soltanto la residuale ipotesi del licenziamento quale reazione all’adempimento di un dovere del dipendente (es. obbligo di denuncia di illeciti da parte del dipendente pubblico), che continua a essere invece regolato dalla più rigorosa disciplina dall’art. 1345 del codice civile.
Non è tutto però. Accanto a questa nuova regola generale declinata “oggettivamente”, si affiancano una molteplicità di speciali fattispecie in cui la protezione del legislatore si fa ancora più intensa, avuto riguardo alla natura soggettiva della vittima, e in particolare:
– ai whistleblower, a cui si applica l’inversione dell’onere della prova (art. 17, secondo comma d.lgs. 24/2023), la presunzione di ritorsività di una serie di atti e di condotte rientranti nella black list (art. 17, quarto comma d.lgs. 24/2023) e la presunzione del danno da ritorsione (art. 17, terzo comma, d.lgs. 24/2023);
– ai soggetti che abbiano realizzato attività diretta ad ottenere la parità di trattamento in materia di discriminazioni o per il contrasto di molestie per ragioni di sesso o genere (art. 26 comma 3 e 41-bis d.lgs. 198/2006), di religione, convinzioni personali, disabilità, età, nazionalità, orientamento sessuale (art. 4-bis d.lgs. 216/2003), di razza o di origine etnica (art. 4-bis d.lgs. 215/2003), alle lavoratrici e ai lavoratori che abbiano richiesto di fruire del lavoro agile ai sensi del d.lgs. 81/2017 (art. 18 comma 3-bis d.lgs. 81/2017) nonché ai lavoratori e alle lavoratrici caregiver (art. 8, comma 5-bis d.lgs. 81/2015; art. 2-bis d.lgs. 104/1992), che beneficiano integralmente delle tutele previste dalla disciplina antidiscriminatoria.
E’ un sistema totalmente nuovo, che risponde a un criterio fondamentale la cui radice è nella stessa Carta Costituzionale: quello dell’effettività, strumento per l’attuazione del principio di giustizia sostanziale.
* Avvocato giuslavorista, da anni si occupa di conflittualità lavorativa anche come redattore di diversi ddl in materia presentati nella scorsa legislatura. Autore di pubblicazioni sul tema della violenza e delle molestie lavorative, tra cui “Il lavoro Molesto”, 2021, scritto in collaborazione con Harald Ege.