Una “riunione di famiglia” da una parte. Una partnership sempre più militarizzata dall’altra. Sono giorni dall’agenda particolarmente fitta per i leader asiatici, desiderosi di non rimanere solamente pedine di alto profilo nella lotta per la supremazia globale tra Cina e Stati Uniti, ma inevitabilmente incagliati nella dialettica tra Pechino e Washington. Nella stessa giornata in cui l’ex presidente taiwanese, Ma Ying-jeou, ha incontrato nella capitale cinese il leader Xi Jinping, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha accolto alla Casa Bianca tra ortensie e California roll il premier giapponese, Fumio Kishida. Due incontri dalla portata storica per tempismo e rilevanza delle cariche coinvolte, diversi nei contenuti ma uniti da un elemento fondamentale: in entrambi i casi, il vero interlocutore era il rivale oltreoceano.
Il “non” presidente Ma a Pechino – Xi Jinping lo ha accolto nella Sala Fujian, la provincia cinese affacciata sullo Stretto di Taiwan, nel palazzo dell’Assemblea Nazionale dei rappresentanti del popolo a Pechino, in un incontro dal profondo carattere simbolico: così Ma Ying-jeou è diventato il primo ex presidente taiwanese ad essere ricevuto a Pechino dal 1949, anno di nascita della Repubblica popolare cinese nonché anno della ritirata dei nazionalisti del Kuomintang (Kmt) a Taiwan.
I due si erano già incontrati nel 2015 a Singapore, quando Ma era ancora in carica, mentre lo scorso anno il leader del Kuomitang ha fatto il suo primo viaggio in Cina senza però incontrare il presidente. La visita era stata rimandata più volte e secondo diversi analisti del settore si tratta di una scelta calcolata: avere Ma a Pechino nella stessa giornata dell’incontro Biden-Kishida e a ridosso del trilaterale con le Filippine di Ferdinand Marcos Jr, sarebbe servito a tamponare annunci sgradevoli da parte di Washington e al contempo a mandare un segnale che sulla questione taiwanese la Cina ha tutto sotto controllo.
Durante il colloquio tenuto la mattina di mercoledì 10 aprile, Xi ha impiegato toni amichevoli, parlando di una “riunione di famiglia” e sottolineando che “non ci sono tematiche di cui non si può discutere” per mantenere buoni i rapporti infra-Stretto. Questo a patto che venga riconosciuto il cosiddetto Consenso del ’92 (quello che stabilisce l’esistenza di una sola Cina, senza esplicitare quale), considerato da Pechino la base delle relazioni bilaterali ma rigettato dal partito in carica a Taipei, il Dpp guidato dall’uscente Tsai Ing-wen così come dal suo successore Lai Ching-te.
“Le interferenze esterne non potranno fermare la tendenza storica di riunificazione del Paese”, ha dichiarato Xi, ribadendo che la “riunificazione” (unificazione secondo Taiwan) è inevitabile. Il riferimento implicito è naturalmente agli Stati Uniti. Il 10 aprile è infatti anche l’anniversario del Taiwan Relations Act, la legge con cui nel 1979 il Congresso statunitense ha stabilito la politica americana nei confronti di Taipei, supportandone la Difesa con l’invio di armamenti.
Per Ma, che il leader cinese ha chiamato “signore” e mai “presidente”, l’obiettivo dell’incontro è stato principalmente sgonfiare le tensioni con la Cina continentale e mostrare il Kmt come unico partito taiwanese dialogante con Pechino. “Se ci fosse una guerra tra le due parti sarebbe insopportabile per il popolo cinese”, ha dichiarato a proposito Ma. La terminologia impiegata non è casuale: i due hanno impostato il dialogo su un terreno comune, vale a dire quello dell’appartenenza etnica e della tradizione culturale millenaria che lega il popolo cinese, utilizzando una terminologia neutrale (si è impiegato il termine huaren che indica “cinesi” in senso culturale invece che zhongguoren che indica la nazionalità della Rpc) ed evitando sentieri scivolosi. Toni pacifici volti in qualche modo a rassicurare circa una possibile aggressione militare cinese nel breve termine, in un periodo in cui tra il recente passaggio del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, in Cina e i legami sempre più stretti con la Corea del Nord (con cui l’11 aprile Pechino festeggia 75 anni di relazioni diplomatiche) Pechino sembra stare richiamando a sé gli alleati più assertivi.
Giappone e Usa più vicini: nuovo accordo sui missili – In questo ping-pong diplomatico fatto di date simboliche e interlocutori secondari, la visita del premier giapponese Fumio Kishida alla Casa Bianca si è rivelata altrettanto importante. Kishida è il primo leader giapponese a recarsi a Washington in oltre nove anni ed è stato accolto da Biden come un “partner globale” la cui importanza strategica è fondamentale in ottica anticinese. Tra gli annunci più rilevanti, quello di una maggiore cooperazione militare e la creazione congiunta di un nuovo sistema di difesa missilistica, che lo stesso Biden ha definito “l’aggiornamento più significativo” dell’alleanza nippo-americana da quando è stata istituita”. Si è parlato implicitamente anche di Cina, con un Kishida che senza mezzi termini ha dichiarato che “i tentativi unilaterali di cambiare lo status quo con la forza o la coercizione sono assolutamente inaccettabili, ovunque essi siano” e ha avvertito che “l’Ucraina di oggi potrebbe essere l’Asia orientale di domani”. Tematiche che verranno sicuramente affrontate durante il confronto atteso con il presidente filippino Marcos Jr, il cui confronto con la Cina nel mar Cinese meridionale è sempre più teso. Come ciliegina sulla torta, Biden ha anche annunciato che un astronauta giapponese sarà il primo non americano ad atterrare sulla Luna. “I legami tra Usa e Giappone si estendono fino alla Luna”, ha detto a proposito il presidente Usa. Un altro duro colpo per Pechino, che della ricerca nello spazio ha fatto negli ultimi anni un potente mezzo di propaganda.