La questione catalana non è chiusa. Ha fatto male i conti il governo di sinistra di Pedro Sánchez se pensava di risolverla con una legge sull’amnistia. Provvedimento in dirittura d’arrivo che è punto di partenza, e non d’arrivo, per il movimento che soffia sugli spiriti nazionalisti. Sbagliavano i conservatori del Partido Popular a ritenere che la mano pesante della giustizia penale alla Dichiarazione unilaterale d’indipendenza, innescata con il referendum illegale del 1 ottobre 2017, fosse sufficiente a disarticolare le istanze più radicali. Focalizzano male la questione i progressisti del Psoe e Sumar pensando che un colpo di spugna dato con lo strumento dell’amnistia possa portare all’estinzione non solo di reati (malversazione e insubordinazione) ma anche delle rivendicazioni estremiste.
Le elezioni del prossimo 12 maggio per il rinnovo del governo della Generalitat riportano alla luce un tema centrale e divisivo: l’indipendenza. Una fetta consistente del popolo catalano è convinta che separarsi da Madrid sia la soluzione, stare sì in Europa e nelle sue istituzioni comunitarie ma da piccolo Stato indipendente. L’amnistia è solo un modo per riequilibrare le posizioni col governo centrale, far rientrare i transfughi e così rilanciare la battaglia per la sfida separatista. L’ex president Carles Puigdemont, il grande artefice del disegno unilaterale d’indipendenza, è uno degli attori più in vista. Ha annunciato la sua candidatura poche settimane fa nel sud della Francia, ad Elne, un luogo emblematico: la piccola cittadina è incastonata nei Pirenei Orientali dove riecheggiano rivendicazioni culturali catalane, una terra di confine dove, nella clandestinità, venne custodito il materiale utilizzato per il referendum del 2017.
È nella vicina regione transalpina del Vallespir che Puigdemont ha fissato la nuova residenza, in attesa della definitiva approvazione dell’amnistia, voltando la pagina del lungo esilio in terra belga e chiudendo la Casa de la Républica di Waterloo. La campagna elettorale si conduce vicino casa, non lontano da Girona, città fortemente nazionalista di cui fu sindaco. Nel suo lento processo di riavvicinamento a casa, dopo 7 anni di esilio, che Catalogna troverà Puigdemont? La ricerca esasperata dell’indipendenza dovrà fare i conti con le questioni sociali ed economiche aperte, il duro confronto politico con Madrid ha rallentato notevolmente l’economia regionale e tra i nuovi problemi avvertiti dalla società si è affermato quello di una siccità perdurante che morde.
L’indipendentismo è in leggera flessione ma ha basi ancora solide, tuttavia recenti sondaggi hanno evidenziato come la crisi idrica è la principale preoccupazione dei catalani mentre solo l’11% crede che sia possibile la creazione, in via unilaterale e quindi senza accordo, di un nuovo Stato. Anche nel mondo separatista si fa strada l’idea che una intesa con La Moncloa sia necessaria, è questo un tema centrale della campagna elettorale e della politica nazionale. Avanza forte l’istanza di un referendum, stavolta riconosciuto e concordato, sulla scia del modello scozzese. L’attuale president Pere Aragonès, esponente degli indipendentisti di sinistra (Esquerra Republicana), ha apertamente sfidato Puigdemont (leader dei centristi di Junts) presentando un progetto con contorni già delineati.
Su diretto incarico della Generalitat un organismo di saggi, l’Istituto sull’Autogoverno, ha elaborato uno studio secondo cui, pur senza interventi sulla Carta costituzionale, una consultazione sarebbe oggi possibile. “Vuole che la Catalogna sia uno Stato indipendente?”, questo il quesito, che è già il cavallo di battaglia di Aragonès. Presidenti indipendentisti che marciano in apparenza divisi ma che colpiscono uniti. Secondo lo studio, un referendum consultivo è consentito dall’attuale sistema e, in caso di esito positivo, dovrebbe portare all’apertura di un tavolo di trattative con Madrid. Un orientamento che contrasta con la giurisprudenza prevalente del Tribunale Costituzionale, una prospettiva fortemente invisa allo stesso Governo centrale.
Pedro Sánchez è convinto di arginare la questione catalana con l’amnistia, provvedimento tormentato che gli ha comunque permesso di ottenere l’appoggio determinante dei nazionalisti in sede di investitura. Al premier, però, non è dato di discutere della “soluzione scozzese”, la destra è sul piede di guerra cavalcando a proprio vantaggio il rinnovato radicalismo catalano. Inoltre l’imminente ritorno di Puigdemont dà fiato al diffuso antisanchismo e alle accuse, espresse in ampi strati della società civile, di Alto tradimento della nazione da parte del Primo ministro.