L’11 aprile 1991, davanti ad Arenzano, a pochi chilometri da Genova, affonda la petroliera Haven, sversando 144.000 tonnellate di petrolio. L’Amoco Cadiz ne sversò 223.000 in Bretagna. La Torrey Canyon 119.000 nelle Isole Scilly. Bazzecole, rispetto all’oltre un milione di tonnellate dispersi nel Golfo del Messico dalla piattaforma Deepwater Horizon. A questi fenomeni acuti si accompagnano quelli cronici. In Liguria, negli anni sessanta e settanta, si andava al mare con una bottiglietta di solvente. Le spiagge erano piene di catrame, e il petrolio galleggiava in lunghe strisce. Capitava di tentare di attraversarle, nuotando sott’acqua, magari uscendo nel bel mezzo di una chiazza: una gioia per i capelli. Quel petrolio veniva dal lavaggio dei serbatoi delle petroliere. Dopo la crisi petrolifera il fenomeno si arrestò: non conveniva buttare a mare il petrolio.

Quei disastri, e molti altri, hanno portato a gravissimi fenomeni acuti e molti ricordano le immagini dei pellicani o dei gabbiani intrappolati dal catrame. O le spiagge tutte nere. Avvenne lo stesso anche con la Haven.

A più di trent’anni di distanza il Mar Ligure è il santuario dei cetacei, e ospita una megafauna di mammiferi che non ha eguali in Mediterraneo. Balenottere e capodogli ci dicono che gli ecosistemi sono sufficientemente funzionanti da permettere il loro rigoglio. Non dico che vada tutto bene e che non ci siano più segni, ma il disastro è rientrato con due bonifiche, nel 2003 e nel 2008. Oggi la Haven è meta di immersione per subacquei in cerca di avventura: è il più grande relitto visitabile in Mediterraneo e uno dei più grandi del mondo. Si trova a 80 m di profondità e sono già morti in sette per vederla, a fronte di migliaia di immersioni ogni anno. La Haven oggi è ricchissima di vita, come tutti i relitti. Ho visitato quelli di alcune navi giapponesi affondate durante la seconda guerra mondiale ad Hansa Bay, in Papuasia. Sono completamente colonizzati dai coralli: uno spettacolo davvero affascinante, proprio come la nostra Haven, anch’essa piena di vita: la natura si riprende in tempi relativamente brevi.

Questi incidenti, sia a carico delle navi sia delle piattaforme, rappresentano un rischio concreto dell’utilizzo del petrolio e la speranza è che, in futuro, lo lasceremo dove sta, ricorrendo a fonti di energia rinnovabile. Oggi i nostri mari affrontano pericoli più subdoli. Il Mediterraneo è stato definito un “brodo di plastica” a causa dell’elevata presenza di microplastiche che non derivano da incidenti come quello della Haven ma dalla continua immissione di plastica dai sistemi terrestri. Le macroplastiche le vediamo sulle nostre spiagge, ma sono solo la punta dell’iceberg. Le microplastiche, derivanti dalla frammentazione delle macroplastiche, o immesse direttamente in mare come tali (dai tessuti, dai cosmetici e da altre fonti) sono più subdole, non le vediamo ma ci sono, e entrano nelle reti alimentari, fino a noi.

La somma di tutti questi impatti, incluso l’inquinamento civile e industriale, costituisce una sorta di linciaggio dell’ambiente. In un linciaggio la folla infierisce sulla vittima, ognuno la colpisce come può, spesso in modo non letale. La somma dei colpi, però, uccide la vittima. Chi è responsabile della morte? Se si calcola l’impatto dei singoli colpi, nessuno è responsabile dell’evento finale. Ma se li mettiamo tutti assieme, come in effetti avviene, è chiaro che l’effetto è devastante. Stiamo linciando la natura. Se eliminiamo o limitiamo un impatto, come quello degli sversamenti di petrolio, ecco che ne determinamo un altro, come la plastica (anch’essa un derivato del petrolio). In questi mesi gli agricoltori hanno protestato contro le limitazioni all’uso dei pesticidi. Le maree rosse dell’Adriatico furono determinate dall’immissione di nutrienti derivanti dai fertilizzanti agricoli e dai fosfati nei detersivi. Sono meno conosciuti gli impatti dei pesticidi sull’ambiente marino. Non parliamo degli antibiotici utilizzati in acquacoltura, e quelli che arrivano al mare dalle fognature, a seguito dell’uso medico che ne facciamo.

Certamente, un fenomeno acuto come quello della Haven ha un grande effetto ecologico e mediatico. Ma ci dobbiamo preoccupare anche di più degli effetti cronici di molte altre attività apparentemente irrilevanti che, cumulate, diventano devastanti. Intanto, si continua a parlare di estrazione di combustibili fossili dai nostri mari. Se non li estraiamo noi, li estraggono gli altri. Tanto vale che li estraiamo noi. E c’è chi dice che la pesca industriale, e in particolare lo strascico, non sia poi un grande impatto. Non parliamo del riscaldamento globale: si allunga la stagione dei bagni. Ogni colpo inferto alla natura viene giustificato da altri colpi, ben peggiori… ragionamenti che legittimano il linciaggio della natura. La transizione ecologica deve tener conto dei rischi ambientali delle nostre attività, cumulandoli e sviluppando tecnologie che li mitighino o li eliminino.

Comunque, tranquilli: la natura si riprende rapidamente e trova sempre, come sulla Haven, nuove strade per svilupparsi. Non è detto, però, che siano per noi favorevoli. Di solito non lo sono.

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