Nell’ultima riunione la Bce ha deciso di mantenere inalterato il costo del denaro, ancorato ancora al 4,5%. Per capire quanto sia elevato e avere un’idea dei suoi effetti perversi sull’economia, ricordiamo che nel 2022 era appena dello 0,25%. Poi è stato continuamente aumentato. Nessuna riduzione insomma, ma solo una timida promessa di riduzione futura, nonostante l’inflazione prevista si stia rapidamente avvicinando all’obiettivo del 2%.
Christine Lagarde e i suoi colleghi rimangono piuttosto attendisti. A suo tempo fu criticata perché ritardò l’inizio dell’ascesa dei tassi, ora sembra criticabile per il motivo opposto. Potremmo dire che temporeggiare, in una direzione o nell’altra, è nel suo Dna. I due errori non si cancellano, casomai si sommano.
Sicuramente a festeggiare della mancata riduzione sanno i Ceo delle banche, grandi o piccole, che porteranno a casa ancora facili profitti da rendita parassitaria. L’amministrazione delegato di Unicredit, tanto per fare un esempio, grazie anche all’aiutino della Bce nel 2023 ha centrato tutti gli obiettivi indicati dagli azionisti e per questo suo successo manageriale il compenso annuale è passato dai 7,5 milioni del 2022 ai 9,7 milioni del 2023.
C’è da scommettere che anche quest’anno li raggiungerà grazie alla prudenza di Lagarde, con altro aumento stellare del bonus, a spese di migliaia di debitori e correntisti discretamente arrabbiati.
Per capire le scelte della capa della Bce, occorre naturalmente costruire un quadro di riferimento che risulta in questo caso abbastanza semplice. La Bce è intervenuta con il rialzo dei tassi quando i prezzi hanno cominciato a salire a causa della guerra. La teoria economica dice, in sintesi, che l’inflazione si combatte con la recessione provocata dall’elevato costo del denaro. La rapida ascesa dei prezzi delle materie prime, trasmessasi poi all’economia, ha portato tutte le banche centrali sulla difensiva aumentando il costo del denaro. Strategia tradizionale, anche se di dubbia efficacia di fronte a un’inflazione da costi.
Ora i mercati delle materie prime si sono calmati, l’inflazione è prevista in discesa al 3% nel 2024 e al 2,5% nel 2025, e dunque anche il tasso di interesse dovrebbe tornale alla normalità e scendere. Sono passati gli anni bui in cui la Bce inondava l’economia di soldi per stimolare (!) la crescita economica, senza il minimo successo peraltro, perché le risorse si incagliavano nel settore bancario, a suo specifico beneficio.
La bestia da domare secondo la Bce è l’inflazione prevista. Ma da cosa dipendono queste famose aspettative? Dal momento che i mercati delle materie prime si sono calmati, non rimane che guardare alle dinamiche redistributive, cioè all’andamento dei salari e dei profitti, come accennato anche nel comunicato dell’11 aprile della Bce. Qui ciò che è successo è abbastanza noto.
Dai dati a disposizione risulta che nel 2023 i profitti delle imprese sono volati, mentre i salari sono rimasti fermi o quasi. In altre parole l’inflazione, iniziata come un recupero naturale dei costi, si è trasformata in una cuccagna per le imprese che hanno aumentato i prezzi ben oltre la soglia dei necessari e legittimi profitti. Si potrebbe parlare di inflazione da profitti, o più precisamente da rendita parassitaria.
A questo punto, c’è da aspettarsi che nelle prossime tornate contrattuali i lavoratori richiedano sostanziosi aumenti salariali per recuperare il reddito perduto. Questo sembra essere il timore di Lagarde, cioè che i prezzi siano rimessi in movimento dalle richieste dei lavoratori e per questo tiene ancora stretto il laccio dei tassi. Ma questa tesi tradizionale non è convincente. L’inflazione del 2023, almeno in Italia, non è stata determinata dalle richieste salariali, non pervenute, ma piuttosto dall’avidità delle imprese che hanno approfittato dello scombussolamento della guerra per lucrare ingiuste rendite.
Se si guardasse ai fatti occorrerebbe chiedere di moderare i profitti e non i salari. I profitti non salgono per caso, ma a spese dei salari – come insegnavano i vecchi manuali di economica politica mandati al macero troppo presto.
L’inflazione da salari che la Bce paventa è una vecchia narrazione raccontata da ultimo anche dal premio Nobel dell’economia Robert Stiller nel capitolo 18esimo del suo Economia e Narrazioni del 2019. La storia che i sindacati sono cattivi e che le loro richieste alimentano l’inflazione è vecchia come il cucco e profondamente fuorviante nel contesto attuale.
Lagarde dovrebbe avere una visione più coraggiosa e meno pilatesca dell’economia. Più che il potere dei sindacati adoperato per ottenere legittimi incrementi salariali, la capa della Bce dovrebbe temere quello ben più rilevante delle imprese alla ricerca di facili profitti. Anche perché i profitti così realizzati vanno solo ad alimentare il mondo della finanza e non quello dell’economia reale. Il capitalismo contemporaneo ha capovolto il gioco degli attori economici e ha fatto nascere una nuova spirale profitti-prezzi, sostituendola alla vecchia salari-prezzi. La Bce dovrebbe prenderne atto e cominciare a stigmatizzare i profitti anomali da rendita, iniziando proprio da quelli delle banche.
Mantenere i tassi ancora così elevati con un’inflazione in calo è un grave danno per l’economia e un bel regalo che la Bce fa alle banche, ma non a se stessa visto che nel 2023, dopo molti anni, il suo bilancio ha visto una perdita di 1,3 miliardi. Ma almeno di questo non c’è da preoccuparsi e Lagarde non rischia certo il posto di lavoro.