Dopo aver negoziato il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, il ministro degli Interni Matteo Piantedosi ha salutato l’accordo tra Consiglio e Parlamento Ue come un successo dell’Italia. Quattro mesi dopo, il 10 aprile, l’Eurocamera approva il Patto. Ma la Lega sconfessa il suo ministro bocciando l’intero testo, definito “deludente e contrario agli interessi dell’Italia”. Schizofrenici anche i meloniani, che qualcosa approvano, altro no e in alcuni casi si astengono, parlando di “pochi progressi”. Il governo Meloni non si perde d’animo e così Piantedosi, che l’indomani gira la frittata: “L’Unione ha rafforzato la normativa che ci impone la realizzazione dei Centri di permanenza per il rimpatrio, i Cpr”. La direttiva rimpatri non impone i Cpr, piuttosto fissa standard e garanzie per le procedure. Confidando forse nell’ignoranza altrui, Piantedosi tira dritto e annuncia l’ennesimo “piano straordinario per l’individuazione di aree da destinare a nuove strutture”. Quelle che nessuno vuole, a partire dalle Regioni. Al bagno di realtà ci ha pensato una dottoranda italiana della London School of Economics, Daniela Movileanu, che sui dati degli ultimi anni ha realizzato una simulazione dell’impatto della riforma europea sul nostro Paese.
Al centro è il regolamento sulle procedure per richiedere l’asilo in Ue. I migranti con basse probabilità di ottenerlo, quelli che vengono da Paesi “sicuri”, saranno obbligatoriamente sottoposti a una procedura accelerata di frontiera che esamina la domanda entro 12 settimane. La procedura subordina l’ingresso nel territorio nazionale all’esito della domanda. Per farlo presuppone la detenzione delle persone e fissa la capacità “adeguata” e quella “massima” per ogni Paese, cioè i posti da avere a disposizione. Il calcolo indicato dall’articolo 47 del regolamento è a dir poco complesso. “Calcolando la media degli ultimi tre anni, si sommano gli ingressi irregolari in Italia, gli sbarchi dopo operazioni di salvataggio in mare e i respingimenti alla frontiera. Si moltiplica la somma per 30.000, il numero minimo di posti da rendere disponibili in un dato momento in tutta l’Ue, e si divide il risultato per la media di ingressi, sbarchi e respingimenti registrati su tutte le frontiere dell’Unione”, spiega Movileanu. Che usando i dati del 2022 ha calcolato per l’Italia una disponibilità di almeno 7.892 posti. Quanto alla capacità massima, sarà il doppio all’entrata in vigore della norma, il triplo un anno dopo e il quadruplo a due anni, per 31.568 posti totali. “Ad oggi in Italia si contano 1.600 posti negli hotspot e 1.338 nei Cpr”, osserva. In altre parole, mancano all’appello da un minimo di 5mila posti a un massimo di 28mila.
Ed ecco le simulazioni, realizzate su impulso di una rete di associazioni italiane, il Forum per cambiare l’ordine delle cose. Nel 2020, con 34mila sbarchi, le attuali disponibilità avrebbero fatto i conti con 31mila persone da destinare alla procedura accelerata. L’anno scorso, con oltre 157mila sbarchi, le persone avviate alla procedura sarebbero state più di 93mila. Non è un fulmine a ciel sereno. Simulazioni sono state commissionate già negli anni passati dalle istituzioni europee, come ricorda Movileanu che nel 2021 ha fatto un tirocinio al Parlamento europeo: “Si facevano per capire se la cosa potesse funzionare nella pratica”. Interrogativo al quale oggi risponde con un secco no. Perché, ricorda, “nel 2023, soltanto nei mesi di luglio e agosto sono arrivate 49mila persone”. Servono strutture per la procedura e altre, i Cpr appunto, per non ottiene l’asilo e va rimpatriato. Nonostante Piantedosi sostenga esserci una “forte correlazione, in senso positivo, tra numero dei rimpatri e posti disponibili nelle strutture”, nel 2023 le questure hanno adottato 28.983 provvedimenti di allontanamento, ma solo 4.368 sono stati effettivamente rimpatriati. Dato in linea con quelli di tutto lo scorso decennio. Significa che per soddisfare la nuova normativa non possiamo fare affidamento sul turnover, visto che nei Cpr molti ci restano mesi, spesso senza alcuna prospettiva di rimpatrio.
Poi c’è che il Patto non ha superato il regolamento di Dublino, ma gli ha solo cambiato nome. La responsabilità di valutare le richieste d’asilo resta in capo al Paese di primo ingresso e ora per un periodo più lungo. Quanto alla “solidarietà obbligatoria”, non impone a nessuno Stato di prendersi parte dei migranti, ma introduce forme di sostegno ai Paesi in prima linea, economico o in contributi alla capacità operativa. Mentre definiva “successo” una riforma decisamente onerosa, il governo Meloni si accordava per aprire due centri in Albania, al costo di 700 milioni di euro per ospitare al massimo tremila persone. Significa raddoppiare l’attuale disponibilità quando il Patto Ue ci imporrà di decuplicarla. Non solo: i tremila posti in Albania non potranno essere calcolati ai fini dalla normativa europea. Perché le norme Ue non si applicano esternamente all’Unione. Di più: come ha chiarito la stessa relatrice del regolamento procedure, l’europarlamentare francese Fabienne Keller, “l’accordo tra l’Italia e Albania non rientra nel nuovo Patto. Le nuove regole definiscono un Paese terzo sicuro sulla base di una relazione effettiva con il migrante trasferito nel Paese in questione e non ci sembra che questo sia il caso dell’accordo tra Italia e Albania. Le autorità ci hanno detto ben poco di questo accordo e la stessa Commissione ha detto che non ci sono ancora elementi scritti”.