L’associazione a delinquere? Dall’ampia istruttoria non è emerso nulla “per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa”. La truffa? “Manca la prova degli elementi costitutivi il reato”. Il peculato? “Non è configurabile per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato”. Quella della Corte d’Appello di Reggio Calabria non è solo una sentenza che ha cancellato la pena a 13 anni e 2 mesi di carcere inflitta in primo grado a Mimmo Lucano che così è stato assolto da tutti i reati gravissimi che gli venivano contestati dalla Procura di Locri: numerosi abusi d’ufficio, diversi falsi, truffa aggravata, peculato e, soprattutto, l’essere il promotore di associazione a delinquere che aveva lo scopo di commettere “un numero indeterminato di delitti (contro la Pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio) legati alla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti. Nonostante la condanna per un falso (relativo una delle 57 determine, firmata nel 2017, contestate dall’accusa in uno solo dei 19 capi di imputazione), le motivazioni dei giudici di secondo grado sono una sorta di “riabilitazione di Lucano” che su richiesta della Procura di Locri nell’ottobre del 2018 era stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Xenia” condotta dalla Guardia di finanza.

Finito prima ai domiciliari e poi a un lungo periodo di esilio, durato un anno, Lucano ha affrontato due processi. Nel 2021 il Tribunale di Locri lo ha condannato a una pena pesantissima per quasi tutti i reati che nel 2023 la Corte d’Appello ha cassato quasi in toto, a parte un falso (per il quale appunto è stato condannato a 18 mesi con pena sospesa), la prescrizione per un abuso d’ufficio e per un altro falso, e il “non doversi procedere per difetto di querela” (che avrebbe dovuto presentare un altro imputato nei confronti di Lucano, ndr) per una presunta truffa.

Accogliendo il ricorso formulato dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, che hanno difeso l’ex sindaco di Riace, in sostanza, i giudici di secondo grado Elisabetta Palumbo, Davide Lauro e Massimo Minniti con meno di 300 pagine hanno smontato l’impianto accusatorio. A partire dalle intercettazioni che, secondo la Corte d’Appello “non erano (e non sono) utilizzabili nel caso di specie”. Rifacendosi a quanto stabilito dalla Cassazione, infatti, nella sentenza depositata in questi giorni, i giudici spiegano che “l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte per altro reato è pur sempre subordinata alla condizione che il nuovo reato sia a sua volta autorizzabile venendo in rilievo un limite imposto dalla legge e non certo oggetto di ‘creazione’ giurisprudenziale’”.

Il riferimento è una critica al Tribunale di Locri che, “per alcune ipotesi di reato, ha dato al fatto una diversa qualificazione giuridica, il che pone il problema” dell’utilizzabilità delle conversazioni “per reati non autonomamente intercettabili”. Detto in altre parole: “Significherebbe da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo, dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di ‘autorizzazione in bianco’, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”.

Ma nonostante “la pur accertata inutilizzabilità dei dialoghi”, secondo la Corte d’Appello, questa “non impedisce di individuare elementi di prova favorevoli agli imputati” ai quali venivano contestati anche i prelievi “di somme in contanti” dai conti correnti delle associazioni impegnate nell’accoglienza dei migranti. “Un dato meramente presuntivo. – si legge in sentenza – Era necessario fornire prova (in specie del tutto mancante) dell’effettivo impiego, e soprattutto dell’impiego illecito, delle somme prelevate dai vari rappresentanti legali, prova il cui onere incombeva sul pm”.

Per non parlare dei migranti lungopermanenti che sarebbero stati trattenuti a Riace: “Può seriamente dubitarsi dell’esistenza di un vantaggio patrimoniale”. Anzi, vi era “la piena consapevolezza, da parte del Servizio centrale e della prefettura, della presenza dei cosiddetti lungopermanenti” che, se ci fossero stati “i presupposti di legge, andavano al limite espulsi con provvedimento di competenza prefettizia e non certo del sindaco”. Al “vuoto probatorio” fa il paio la questione dell’ “interpretazione” del significato delle conversazioni di Lucano. “È di giustizia – scrivono i magistrati – evidenziare come lo stesso Tribunale, in maniera contraddittoria, abbia in realtà utilizzato numerose conversazioni captate dopo la discovery, ritenendo di poterne trarre elementi a carico degli appellanti”.

Eppure, contestando quanto scritto dal Tribunale di Locri, la Corte d’Appello evidenzia che “i dialoghi intercettati in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico suggeriscono di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio ‘arrembaggio’ alle risorse pubbliche”. Piuttosto sono emersi elementi “di segno positivo che, in uno con lo stato di incensuratezza, inducono a riconoscere le circostanze attenuanti generiche”. Attenuanti che, all’ex sindaco di Riace, erano state invece negate nel primo processo. Per i giudici d’appello, “sono indicatori meritevoli di considerazione la personalità dell’appellante (Lucano appunto, ndr), il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, ‘Io devo avere uno sguardo più alto’)”.

“Più in particolare – si legge – non si condivide il contrario assunto del Tribunale che, nell’offrire la propria chiave di lettura degli elementi di prova, ha fatto riferimento ad una ‘logica predatoria delle risorse pubbliche’, ad ‘appetiti di natura personale, a meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull’avidità’. Ciò al fine di delineare la personalità del Lucano, di cui escludeva qualsiasi connotazione altruistica, nei fatti sacrificata agli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore’”.

La storia di Riace e di Lucano, in realtà è diversa. Le conclusioni della Corte d’Appello, infatti, non lasciano dubbi su un modello di accoglienza che l’inchiesta Xenia ha distrutto tra gli applausi del centrodestra e il silenzio del centrosinistra: “A ben vedere, i dialoghi captati mettono in luce lo spirito di fondo che ha mosso l’imputato, certo di poter alimentare una economia della speranza, funzionale a quella che più volte Lucano ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi. Una mission tesa a perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento di bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto”.

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