Esiste il rischio che ci si dimentichi di Maradona? O di Pelè, di Platini, di Van Basten e di Buffon? Naturalmente no! E dunque se avesse la velleità di raccontare loro “Ti ricordi” non avrebbe senso di esistere: le stelle restano stelle. Discorso simile in cucina: gli chef stellati restano chef stellati, con la loro aura di sacralità. Più avvicinabile, seppur meno memorabile, la figura dell’oste: che poi magari in osteria si trovi qualcosa di ben più memorabile che nelle cucine stellate è un altro discorso. Opinabile anche. E in base al sillogismo un po’ astruso delle righe precedenti piace pensare a German “El Mono” Burgos come a una sorta di oste del pallone: che poi al di là dell’aspetto (soprattutto) e dei trascorsi calcistici sia forse una delle figure più affascinanti che il mondo pallonaro moderno ci abbia regalato è un altro discorso. Opinabile anche.

Oste, dunque, ma di quelli che regalano perle quando vengono a sedersi al tavolo per un bicchiere a fine serata se gli gira bene. Perché in un mare di roba trita e ritrita non puoi non adorare uno che all’addio al calcio di Maradona, a Buenos Aires nel 2001, risponde a un giornalista che gli chiede se ritenesse sensato quel tripudio di lacrime, cori, bandiere e colori: “Amico, siamo argentini: nella storia abbiamo prodotto solo Borges, Che Guevara, Fangio, Evita Peron e Diego, senza di loro saremmo quelli delle pampas e delle mucche. Quindi sì, è profondamente giusto tutto questo”. Una riflessione che, condivisa o meno, ha il pregio di essere vera, nel senso di autentica e non roba trita e ritrita: non è poco nel calcio, non è un unicum per German Adrian Ramon Burgos che all’epoca era un “tipaccio” che andava in porta con lunghissimi capelli dal colore indefinibile governati da un berretto o da una fascia.

Nasce a Mar del Plata, inevitabile finire in porta: si chiama “Mono”, che in spagnolo significa scimmia, non tanto per l’agilità tra i pali, quanto per le dimensioni visto è un colosso di un metro e novanta. Il suo allenatore al Ferro Carril lo paragona a un gorilla e il gioco è fatto. Esordisce nel Ferro Carril e poi passa al River: più che per le parate, che comunque esibisce, si fa conoscere per le sue massime, per le sue azioni estemporanee. Tipo quando falcia di brutto Blas Giunta del Boca lanciato a rete, incurante che l’azione fosse già stata fermata per fuorigioco e chiedendo pure all’attaccante di suoi eventuali desideri di morte, secondo lui evidentemente manifestati nel momento stesso in cui Blas aveva deciso di puntarlo. È anche noto per aver preso gol da sessanta metri dal collega Chilavert, sebbene più che il gol si ricorda il commento del Mono: “Chila ha tirato direttamente dal Paraguay”.

In quel meraviglioso e poco raccomandabile River dove condivide uno spogliatoio paragonabile a una di quelle road house con le Harley parcheggiate fuori, con gente del calibro di Burrito Ortega, Mathias Almeyda, Ricardo Altamirano, Pablo Aimar ed Enzo Francescoli, vince cinque titoli tra Apertura e Clausura e soprattutto la Libertadores del 1996, perdendo l’Intercontinentale contro la Juve, seppur da riserva di Bonano.

Passa al Mallorca, dove gioca poco, anche per via di un’altra “Monata”: un pugno a Serrano dell’Espanyol che in una sola frase aveva offeso sia sua madre che le sue origini sudamericane. Gesto che gli costa undici giornate di squalifica. Avrà miglior fortuna nell’Atletico Madrid, coi Colchoneros all’epoca retrocessi in Segunda Division: sarà protagonista della promozione nel massimo campionato, di un rigore parato a Luis Figo nel derby e soprattutto di aver superato un cancro al rene che gli viene diagnosticato nel 2003. “Prima però devo giocare contro il Mallorca: mi opero lunedì”, dirà, per fortuna senza essere ascoltato dal team che lo manda subito sotto i ferri.

Ormai la carriera è agli sgoccioli e la sua vita si divide tra il tentativo di andare in panchina e fare la rockstar: una cosa ovvia per uno con quell’aspetto, vagamente somigliante a Steven Tyler degli Aerosmith con una ottima aggiunta di tamarrità che lo rende il frontman dei The Garb, appunto German Adrian Ramon Burgos. Prova l’avventura in panchina nel Carabanchel: distretto di Madrid noto più che altro per essere nominato nella canzone che gli Ska-P hanno dedicato al gato Lopez, col club che milita in sesta divisione. È allora però che arriva la chiamata di un vecchio amico: quel Cholo Simeone che con lui aveva condiviso la fine della carriera all’Atletico. Lo chiama come suo vice al Catania: sarà l’inizio di un sodalizio importante per loro e anche per chi li incontra.

Il Cholo è un martello, in senso metaforico, il Mono rischia spesso di diventarlo anche in senso fisico: tra i primi a sperimentarlo è Maxi Lopez che in panchina contro il Napoli prova a declinare l’invito di Simeone a scaldarsi per entrare in campo, con Burgos che gli fa ritrovare la voglia, non con le buone racconterà l’attaccante. Più tardi la versione “Mono furioso” sarà sperimentata anche da Josè Mourinho, che in un Real-Barcellona aveva piantato un indice in un occhio a Tito Vilanova, all’epoca vice di Pep Guardiola. In un derby gli animi si scaldano e Mourinho battibecca con la panchina dell’Atletico, trovando un diplomatico Mono che avverte: “Mira che yo no soy Tito. Yo te arraco la cabeza”, ovvero “Non sono tollerante come Tito Vilanova, io ti stacco la testa”.

Anche quell’amicizia tuttavia si rompe, col Mono che passa a guidare prima il Newell’s Old Boys e poi l’Aris Salonicco, lasciando qua e là le sue massime, come quella arcinota sugli altri sport all’infuori del calcio, per lui inesistenti, o quella sull’alternativa ideale alla vita del calciatore, per Burgos consistente al massimo nell’esserne la moglie. Non facendosi mancare scivoloni neppure in questo settore, come quello su Lamine Yamal di mercoledì sera, quando nel post gara di Psg-Barça ha avvertito il baby fenomeno “alla Mono”, dicendogli “Sì è forte, ma deve stare attento perché il calcio è come la vita. Se non fa bene rischia di ritrovarsi al semaforo”, infelice e bollata come razzista, sebbene German (che il razzismo l’ha pure subito nella sua carriera) abbia precisato che l’intento non fosse certo discriminatorio. Compie 55 anni martedì, di papere o parate clamorose, capolavori verbali o cazzate come quella su Yamal: in fondo pure in osteria magari becchi il vino annacquato, magari un piatto che è un capolavoro.

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