Durante una recente puntata del programma Soundtrack City (condotto da Marco Testoni e Massimo Privitera) ho ragionato con diversi colleghi sul tema dell’intelligenza artificiale in musica. Tra le varie tematiche emerse vorrei riprenderne una che, in un mio precedente post, avevo solo potuto accennare.

Ad oggi esistono diversi programmi in grado di assemblare un brano musicale ex novo, o modificarne uno esistente. Si tratta di software “capaci di passare” da una composizione alla Hans Zimmer ad una hit dell’estate, di sostituire la nostra voce con quella di Freddie Mercury o di estrapolare una partitura da un file audio. Le applicazioni, ma soprattutto le implicazioni sono molteplici, al punto da indurci a sovrapporre spesso questioni (etiche, economiche, sociali, ecc) che andrebbero sempre trattate separatamente. La sfera che qui mi interessa è quella della creatività poiché, dopo un iniziale entusiasmo, anche tra i musicisti inizia a serpeggiare la fatidica domanda: le macchine faranno musica al posto nostro?

Esiste innanzitutto una questione autoriale. Da una prospettiva wagneriana, ad esempio, la musica è una terra fertile da seminare con contenuti letterari e semi extra-musicali che le permettano di generare frutti meravigliosi (musica del mito, direbbe Lévi-Strauss). Da una prospettiva beethoveniana (musica del messaggio) o da una bachiana (musica del codice) si aprirebbero scenari creativi completamente diversi, risultato di una prospettiva filosofica alternativa. Come avviene nel cinema (e in altre forme d’arte) affidando lo stesso soggetto a Lynch, Eastwood o Iñárritu, otterremmo opere lontanissime tra loro. L’autore (auctor deriva da augeo “aumentare”, nonché dalla radice di auctoritas “autorità”) è infatti il creatore di qualcosa, colui che fa aumentare l’insieme apportando un valore aggiunto a quella che, altrimenti, rappresenterebbe solo la mera somma algebrica degli elementi coinvolti (un quadro non è certo l’insieme dei suoi colori).

In un tale scenario il compositore è, e resta, un autore che, agendo secondo i dettami di una precisa visione filosofica della musica e dell’arte, produrrà opere che sono il risultato della sua storia, biografia e formazione. L’autore, a ben pensarci, è l’esatto opposto del computer, poiché quest’ultimo non ha alcuna autorità, né apporta alcun valore (qualitativo) aggiunto.

Esiste inoltre, a mio avviso, un problema di codificabilità dei generi musicali che prescinde sia dal loro livello interno di complessità, che dai contenuti culturali veicolati. Mi spiego meglio. Siamo sicuri che tutte le tipologie di musica siano replicabili, con pari efficacia, da una macchina? È nella logica delle cose che un computer abbia “maggiore facilità” nell’imitare una severa composizione bachiana o un brano minimalista di Steve Reich, piuttosto che una camaleontica composizione di Ravel o un affresco sinfonico di Vaughan Williams. Analogamente, computare una hit credibile in stile Michael Jackson è statisticamente più probabile che assemblare un brano visionario alla Roger Waters. Più una forma è aperta, ramificata, imprevedibile e ricca di affluenti extra-musicali, più un algoritmo risulterà inadeguato. Una gavotta o un minuetto sono più semplici da riprodurre in modo credibile rispetto ad una sonata o un poema sinfonico; per non parlare di generi quali techno, pop, dance che basano la loro estetica sulla ripetizione prevedibile di modelli ordinati. Questo per dire che, a prescindere dalla loro estrazione culturale e finalità artistica, è la natura ingegneristica, matematica e strutturalista di alcune composizioni, a renderle più facilmente emulabili.

Ciò detto, come avvenuto in altri settori, le operazioni ad essere maggiormente a rischio di sostituzione tecnica sono quelle in cui è richiesto un basso gradiente di ingegno, creatività ed autorialità, nel senso appunto di “aumentazione” del risultato o del prodotto. Il jingle, il trailer o la sigla sono tutte produzioni che i computer possono fare dignitosamente. E non perché queste composizioni siano brevi o semplici, ma perché sono estremamente standardizzate e codificate, come lo sono ormai anche molte colonne sonore tarate su meccanici standard di corrispondenza tra immagine e suono. Basterà inserire il mood, il genere e una breve descrizione della scena in attesa che la macchina restituisca qualcosa che funzioni, estremizzando di fatto un modus operandi piuttosto diffuso, che prevede massiccio impiego di loop e pattern disponibili nei software che acquistiamo (to be continued…).

Tuttavia, se in altri settori nessuno si è comprensibilmente sentito sminuito dal fatto che il passaggio a livello lo apra un sensore e il pavimento lo pulisca un robot, nel caso della creatività entrano in gioco fattori quali la soggettività umana e quell’intelligenza di cui, a buon diritto, riteniamo tutti di essere ampiamente provvisti. Nelle arti, tuttavia, temo che l’intelligenza artificiale generativa avrà, soprattutto nell’immediato, l’effetto di palesare l’assoluta mediocrità degli ultimi decenni, evidenziando che il livello autoriale è decaduto a tal punto che perfino un computer è in grado di accroccare qualcosa che la massa potrà recepire come accettabile. È inutile girarci intorno, ChatGPT è perfettamente in grado di scrivere un buon articolo meglio di tanti analfabeti che digitano a piede libero. Midjourney può tranquillamente realizzare un bel dipinto figurativo, contrariamente a certi pseudo artisti che, schermati dietro l’astrattismo, non sanno neppure abbozzare un ritratto. Allo stesso modo, AIVA è capace di azzeccare un motivo orecchiabile (espressione felicemente rivelatrice) meglio di tanti musicisti della domenica.

In conclusione, non credo che l’intelligenza artificiale faccia paura ad Arvo Pärt, Terrence Malik o Bill Viola. È piuttosto quella nutrita schiera di tecno-esaltati che, dopo aver deriso per anni la filosofia e gli studi umanistici in generale, ha finito per consegnare sé stessa nelle mani di un mondo che sembra voler fare a meno soprattutto di loro.

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