Dopo l’attacco dell’Iran a Israele – praticamente annunciato e di fatto respinto – è lo spettro nucleare che agita le diplomazie. La temuta escalation – con gli alleati che invitano Tel Aviv a non rispondere all’attacco – potrebbe arrivare proprio da lì secondo alcuni analisti occidentali. Di certo si sa che Teheran ha fatto progressi dal 2018, anno in cui Washington, sotto l’amministrazione Trump, si ritirò dall’accordo sui controlli Onu sull’energia atomica iraniana sottoscritto nel 2015 a Vienna con i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza – Cina, Francia, Russia, Regno Unito, oltre agli Stati Uniti – più Germania e Ue. Stando al Wall Street Journal, è infatti oggi l’unico attore al mondo privo di un arsenale nucleare capace di “arricchire l’uranio al 60%”. E sebbene non risulti aver compiuto l’ultimo miglio verso la ripresa di operazioni concrete di assemblaggio di ordigni, come confermato dal più fresco aggiornamento del rapporto annuale dell’intelligence americana, viene ritenuto in grado di disporre di combustibile nucleare “quasi pronto” per non meno di tre bombe atomiche.
Prospettiva inaccettabile per Israele, nelle parole di Netanyahu, che da tempo evoca la necessità di una soluzione militare definitiva contro una minaccia presentata come potenzialmente “esistenziale” per Israele. Per quanto in passato frenato anche sul fronte interno da vertici militari e dei servizi israeliani, persuasi dell’impossibilità di un successo senza il coinvolgimento bellico diretto del grande fratello d’oltre oceano. Un precedente che spesso i media israeliani ricordano è d’altronde quello dello strike condotto nel 1981 dai jet con la Stella di Davide sul reattore della centrale di Osirak, in Iraq, cuore dei progetti nucleari attribuiti al regime di Saddam Hussein, all’epoca al potere a Baghdad.
Ma per l’Iran le cose sono più complesse, nota Daniel E. Mouton, analista militare presso la Scowcroft Middle East Security Initiative dell’Atlantic Council, avvertendo che senza l’aiuto americano – tutt’altro che scontato dopo il mancato preavviso di Netanyahu a Joe Biden del raid su Damasco – Israele difficilmente caverebbe il proverbiale ragno dal buco. Anche mettendo in campo tutti i propri F-35, gli F-15 e i missili Gerico-2 o Gerico-3: descritti dal londinese Telegraph come le sue migliori carte attuali a medio o lungo raggio, rispettivamente con 1.500 chili di portata d’esplosivo e 3.500 chilometri di gittata e con 750 chili e 6.500 chilometri.
Armi testate nel 2022 in una vasta esercitazione ad hoc disegnata proprio sullo scenario di un eventuale attacco a distanza contro target iraniani, come evidenziato dall’allora capo di stato maggiore delle forze israeliane (Tzahal), generale Aviv Kochavi. Ed esibite di nuovo più di recente in un’allerta simulata coordinata con gli Stati Uniti e con Cipro, dove ha sede una cruciale base della Raf britannica nel Mediterraneo orientale. Armi a cui l’Iran può del resto opporre un’ormai imponente produzione e scorta di droni e missili balistici. Ma soprattutto una dispersione delle strutture militari, aeree, d’intelligence e degli impianti nucleari indicati dai media quali ipotetici bersagli chiave. Impianti protetti o nascosti come i reattori di ricerca di Bonab, Ramsar e Teheran; quello per la produzione di acqua pesante di Arak; la centrale di Bushehr (realizzata a suo tempo con la cooperazione della Russia e al centro di ricorrenti polemiche su presunte ispezioni internazionali in parte negate); o la miniera d’uranio di Gachin; nonché l’impianto di conversione di Isfahan e i laboratori per l’arricchimento di Natanz, di Qom o di Fordow: quest’ultimo sotterrato a mo’ di bunker nelle profondità della terra persiana.