“Io credo che le sentenze debbano essere ovviamente sempre rispettate ma possono essere criticate. Quella sulla cosiddetta Trattativa è stata un colpo di spugna: si dovevano cancellare quelle verità che erano state acquisite in primo e secondo grado e che erano troppo scabrose per questo Paese“. Lo ha detto Nino Di Matteo, sostituto procuratore della procura nazionale Antimafia, intervenuto al Festival internazionale dell’Antimafia “L’Impegno di tutti” organizzato dall’associazione Wikimafia a Milano. In un cinema Anteo tutto esaurito l’ex pm di Palermo ha spiegato per quale motivo non condivide la sentenza della Cassazione sulla Trattativa. “Intanto il giudice di legittimità è entrato pesantemente nel fatto, tanto è vero che ha cambiato la formula assolutoria dei carabinieri”, ha spiegato, riferendosi al fatto che la Suprema corte ha annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, che in secondo grado erano stati giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato. I militari, invece, sono stati assolti in via definitiva per non aver commesso il fatto. Su questa sentenza Di Matteo ha scritto un libro, insieme al giornalista Saverio Lodato, che s’intitola Il colpo di spugna, Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare (Fuoriscena): per i giudizi espressi in quelle pagine il senatore Maurizio Gasparri ha chiesto al guardasigilli Carlo Nordio di attivare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato.
A proposito della decisione della Cassazione Di Matteo ha ricordato al pubblico milanese che “con pochissime pagine di motivazione la corte annulla senza rinvio, perchè se avesse avuto dei dubbi sulla sentenza di Appello avrebbero dovuto casomai ordinare un nuovo processo. Ma non poteva restare consacrato in una sentenza definitiva il fatto che parte dello Stato avesse preso accordi con parte della Mafia e questo mentre in Italia erano state commesse sette stragi”. E ancora “questa sentenza senza uno spartiacque tra due ere: l’epoca delle grandi inchieste su mafia e potere e l’epoca – temo – della normalizzazione“. Ripercorrendo la decisione della Suprema corte, Di Matteo ha spiegato che si tratta di “un monito per tutti coloro che in futuro saranno chiamati a occuparsi di processi in cui i fatti devono essere collegati uno con l’altro. Questo hanno fatto i giudici di primo e secondo grado: collegare i fatti e calarli nel contesto socio-politico che viveva il Paese in quel momento. Ebbene la Cassazione li ha bacchettati, affermando che avevano adottato un approccio di tipo storiografico”. Nelle motivazioni della Suprema corte, però, è rimasto un passaggio, accertato nelle sentenze precedenti: “Il fatto che alti ufficiali dei carabinieri avessero cercato un dialogo con Totò Riina e Bernardo Provenzano dopo la strage di Capaci. Non hanno potutto negarlo perché ci sono le parole del generale Mori che nel 1997 al processo sulla strage di via dei Georgofili a Firenze disse di aver contattato Ciancimino, dicendo: cosa è questo muro contro muro tra lo Stato e la mafia? Cosa vogliono questi per far cessare le stragi?”, ha ricordato sempre Di Matteo. Spiegando che l’approccio di Mori “è un dato di fatto. Questo atteggiamento degli uomini dello Stato convinse Riina che quella strategia dell’attacco frontale fosse quella giusta. Le stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano non sono le tipiche stragi a cui ci aveva abituato Cosa nostra, ma sono stragi di natura terroristico-politica. Vengono fatte per gettare nel panico il Paese, perché Riina e gli altri capirono che era il momento giusto per calare ancora di più il peso della loro violenza”.