Qualche settimana, fa il centro studi Euro Intelligence, guidato dall’ex editorialista “eterodosso” del Financial Times Wolfgang Münchau, ha prospettato la possibilità che la zona euro si stia dirigendo verso una crisi debitoria. Francia e Italia sono i “canarini nella miniera”, ossia quelli più deboli che, “morendo” per primi, segnalano come l’aria stia diventando irrespirabile e tutti rischino di soffocare. Le ragioni di questo deterioramento generalizzato sono molteplici, spiega Euro Intelligence, ma la questione di fondo è che il modello industriale della zona euro, messo in crisi da rivoluzioni tecnologiche e rallentamenti della globalizzazione (e quindi dell’export), non sarebbe più in grado di sostenere il modello sociale europeo.
Gli ultimi dati sui conti pubblici francesi sono preoccupanti. Nel 2023 il deficit è stato pari al 5,5% del Pil, ben oltre quella soglia del 3% indicato come tetto massimo dai parametri Ue. L’obiettivo del governo per il 2024 è quello di ridurre il disavanzo al 4,4% del Pil, tuttavia, per molti osservatori, questo buon proposito, sembra piuttosto irrealistico in assenza di interventi radicali su spesa e/o tasse. Del resto l’alta spesa sociale è vista come indispensabile per tenere l’estrema destra di Marine Le Pen lontana dall’Eliseo. Il tutto a fronte di una crescita economica e della produttività tutt’altro che brillanti. Il Pil francese (l’altro elemento del rapporto), stando alle valutazioni del Fondo monetario internazionale, non dovrebbe andare quest’anno oltre un + 1,3%.
La Francia è dunque in grave difficoltà ma, nell’ambito di un generale malessere, è l’Italia il paese più vulnerabile a queste dinamiche nefaste. Quest’anno torneremo in ultima posizione tra i paesi euro per velocità di crescita. Il Fmi ci accredita un + 0,7%, Banca d’Italia lo 0,6%. Il governo azzarda un + 1%. La produttività è praticamente ferma da quando il paese è entrato nella moneta unica. Il deficit è, per ora, indicato nel 2024 al 4,3% e quest’anno sarà negativo pure il saldo primario, ovvero la differenza tra entrate e spese dello Stato prima che vengano pagati gli interessi sul debito.
Il documento di economia e finanza è stato presentato monco. Ovvero solo con le cifre che si prevede arriverebbero a politiche invariate, quindi in assenza di interventi del governo. Manca invece la cosiddetta parte programmatica. In teoria il governo punta a ridurre il deficit al 3,7% nel 2025 ma, se lo vuole fare senza tagliare spese o eliminare misure come il taglio al cuneo fiscale, deve trovare almeno 20 miliardi di euro. Per il debito, invece, non è al momento prevista nessuna inversione di rotta. Dal 137,8% di quest’anno, si va su fino a sfiorare il 140% nel 2026. Già l’anno prossimo, in valore assoluti, il valore del debito (in sostanza i nostri titoli di Stato in circolazione sui mercati) sfonderà quota 3mila miliardi di euro (oggi siamo a 2.800 miliardi).
Ve detto che, negli ultimi anni, sono caduti molti dogmi sui livelli di sostenibilità di un debito pubblico. Cifre che prima venivano viste come “condanne a morte”, vengono ora accolte con una certa noncuranza. Crisi finanziaria del 2008 prima (mai finita) e pandemia poi, hanno fatto lievitare i debiti pubblici ovunque, stare al di sopra del 100% del Pil è diventata la norma quasi ovunque. L’anomalia italiana si è in qualche misura generalizzata, per ora senza particolari sfracelli. Al momento dai mercati non provengono segnali d’allarme. Lo spread è su livelli relativamente contenuti e non subisce grandi scossoni. La Bce, in una qualche misura, continua a vigilare. Ma gli umori possono cambiare in fretta.
“Se guardo all’indebitamento delle economie avanzate vedo una media del 114% del Pil. Prima del crac di Lehman era al 75%. C’è insomma una situazione, da un certo punto di vista, più preoccupante che nel 2008, prima della grande crisi finanziaria globale. Non voglio essere troppo pessimista ma è qualcosa a cui prestare attenzione“, ha detto pochi giorni fa in un’intervista a Bloomberg l’ex presidente della Bce Jean Claude Trichet. “In una riunione come l’Ecofin il tema del debito c’è sempre, anche se non viene esplicitamente richiamato. Una preoccupazione sulla sostenibilità finanziaria c’è e l’ abbiamo anche noi che stiamo cercando di gestire al meglio”, ha ammesso venerdì il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a margine dell’Ecofin.
Ci sono circostanze in cui il debito diventa di per se incontrollabile, indipendentemente da un controllo serrato sulla spesa. “Più la barca si inclina, più tende a inclinarsi, non torna più in equilibrio ma si rovescia”, spiegava l’economista Irving Fisher che aveva descritto matematicamente questo fenomeno. Accade quando la crescita del reddito nazionale è più bassa di quella dei tassi di interesse reali (ossia tolto l’effetto dell’inflazione che alleggerisce il peso dei debiti). Siamo lontani da uno scenario di questo tipo. È vero, tra il 2021 e il 2023 gli interessi medi che paghiamo sul nostro debito pubblico sono cresciuti un bel po’, dallo 0,1% al 3,7%, tornando sui valori del 2011 (quando però l’inflazione era al 2,8%). Gli ultimi sono stati anni di inflazione sostenuta che di fatto ha ridotto il valore reale del nostro debito. Se però le stime saranno confermate, non sarà così nel 2024. L’interesse medio è indicato al 3,5%, l’inflazione è attesa all’1,3%, la crescita, se va bene, sarà dell’1%. Il peso degli interessi è insomma destinato ad incidere ben di più che negli anni scorsi. A giugno arriverà il taglio della Bce che alleggerirà un poco la pressione. Ma una protratta serie di riduzioni del costo del denaro non è più così scontata come qualche tempo fa.
Nell’immediato ci sono patate bollenti difficili da maneggiare. La prima è la spesa per le varie agevolazioni edilizie, i crediti maturati nei confronti dello Stato hanno raggiunto i 220 miliardi (122 miliardi il solo superbonus). Ci sono poi tante misure da rifinanziare e un sistema sanitario sanità che necessità di maggiori risorse per non andare alla deriva. Molte delle spese sono incomprimibili, a cominciare da quelle per le pensioni e altre forme di assistenza che ogni anno assorbono 476 miliardi. Sullo sfondo c’è l’incubo della possibile necessità di un radicale incremento delle spese per la difesa. “Il dividendo della pace è finito”, dice qualcuno. Il nostro budget militare si colloca al momento all’1,2% del Pil, ossia una trentina di miliardi. La Nato vorrebbe portarlo per tutti i paesi membri al 2%, quindi ci sarebbero da trovare altri 20 miliardi l’anno. Stime più allarmistiche ipotizzano la necessità di spingersi fino al 4% del Pil. Per noi vorrebbe dire portare la spesa da 20 a quasi 100 miliardi di euro, proiettando il debito al 180% del Pil entro il 2040. A meno, naturalmente, di feroci tagli ad altre voci di spesa, andando ad incidere, come si dice, sulla carne viva del paese.
Nel suo ultimo report Lorenzo Codogno, docente universitario a Londra ed ex capo economista del Tesoro, scrive: “Tra il vincolo politico ed economico a non aumentare ulteriormente le tasse e la ben nota difficoltà nel comprimere la spesa pubblica corrente, il rischio è che l’Italia si avvicini sempre più ad un punto di non ritorno. Servirebbero azioni radicali e politicamente difficili che solo un governo che agisca in una prospettiva di medio termine può intraprendere. L’attuale governo gode di un’ampia maggioranza in parlamento e nei sondaggi. Pertanto, indipendentemente dal colore politico, dovrebbe essere nelle condizioni di poter raccogliere questa sfida”.